TRIBUNALE DI TORRE ANNUNZIATA 
                           Sezione penale 
 
  Il Giudice monocratico, dott.ssa  Gabriella  Ambrosino,  visti  gli
atti del procedimento a carico di L  E  ,  nato  a   sottoposto  alle
misure congiunte del divieto  di  dimora  nella  Regione  Campania  e
dell'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria,  assente  con
domicilio eletto in  difeso di fiducia dagli avvocati Alfonso Piscino
e Giuliano Sorrentino del Foro di Torre Annunziata imputato 
    1) del reato p. e p. dall'art. 612-bis, commi 1 e 2,  del  codice
penale perche', con reiterate condotte  di  minaccia  e  molestia  di
seguito indicate, cagionava alla compagna C P un perdurante  e  grave
stato di ansia e  paura,  ingenerandole  un  fondato  motivo  per  la
propria incolumita' al punto da costringerla, altresi',  ad  alterare
le abitudini di vita ed in particolare: 
        -  costringendola  a  non  uscire  di  casa  per  timore   di
incontrarlo; 
        - costringendola a non usare piu' un numero di telefono a se'
intestato; in particolare: 
          a) presentandosi sotto casa della compagna  C   P   facendo
scenate di gelosia, profferendo nel  contempo  espressioni  del  tipo
«Sta puttana! sta troia!» e, quando non la trovava in  casa,  urlando
dal balcone per farsi sentire dai figli e vicini di casa; 
          b) manifestando una pressante gelosia nei confronti della C
 , litigando e colpendola per questi motivi con schiaffi al volto; 
          c)  minacciando  di  fare  del  male  alla  famiglia  della
compagna e,  in  particolare,  al  figlio  C   profferendo  nei  suoi
confronti la seguente espressione «Mo che veng' sotto  o  portone  e'
meglio che acchiapp' a figliet! E primm mazzate hann' a essere soje»; 
          d) dopo essersi recato con la C  in un hotel,  sottraendole
il telefono cellulare e  spegnendolo,  avvisandola  che  non  sarebbe
uscita dalla stanza senza la sua volonta' e, accortosi che la  stessa
aveva  riacceso  il  telefono  per  chiamare  il   figlio,   dapprima
costringendola con la  forza  ad  inserire  la  password  di  sblocco
profferendo al suo indirizzo espressioni del tipo «Sta  zoccola!  sta
cessa!» «pensavi e me fa  a  me!»  e  ancora  «La  devi  pagare!»  e,
successivamente  aggredendola  fisicamente  con   pugni   al   volto,
stringendole il collo con  le  mani  urlando  di  volerla  ammazzare,
trascinandola nel bagno per i capelli e facendole sbattere  il  volto
ripetutamente contro il lavandino e il muro, colpendola con una sedia
sulle gambe e sui piedi, afferrandole  le  orecchie  con  le  mani  e
torcendole, cagionandole in tal  modo  le  lesioni  personali  meglio
descritte al capo 2) (episodio del 25 novembre 2019); 
          e) telefonando alla persona offesa  e  pretendendo  che  la
stessa coprisse con il trucco i lividi del giorno prima (episodio del
26 novembre 2019); 
    In      ed altri luoghi dal settembre al dicembre 2019; 
    2) del reato  p.  e  p.  dagli  articoli  582-585,  in  relazione
all'art. 576 n. 5.1 e 577 n. 1) del codice  penale,  perche'  con  la
condotta meglio descritta nel capo 1),  cagionava  a  C   P   lesioni
personali consistite in «Trauma chiuso di una costola, traumatismo di
faccia e naso, traumatismo della testa, contusione della coscia,  del
piede, della regione della spalla, della mano, del braccio superiore;
frattura V costa destra,  contusione  regione  orbitaria  DX,  trauma
cranico non commotivo, contusione coscia sinistra,  contusione  piede
destra e sinistro,  della  spalla  destra,  della  mano  destra,  del
braccio destro», giudicate guaribili in giorni 25; 
    Con l'aggravante di aver commesso il fatto in danno della persona
vittima di  atti  persecutori  ed  in  danno  di  persona  legata  al
colpevole da relazione affettiva. 
    In P   il 25 novembre 2019 
    Con  la  recidiva  specifica  a  scioglimento  della  riserva  di
decidere formulata all'udienza del 9 giugno 2020  ha  pronunciato  la
seguente 
 
                              Ordinanza 
 
    per  sollevare  la  questione  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 521 del codice di procedura penale,  per  violazione  degli
articoli 3, 24 e 111 della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  non
prevede la  facolta'  dell'imputato,  allorquando  sia  invitato  dal
giudice del  dibattimento  ad  instaurare  il  contraddittorio  sulla
riqualificazione giuridica  del  fatto,  di  richiedere  il  giudizio
abbreviato  relativamente  al  fatto  diversamente  qualificato   dal
giudice in esito al giudizio. 
Il procedimento a quo 
    Con decreto di giudizio immediato emesso il 10 gennaio  2020,  L 
E  , gia' in stato  di  custodia  cautelare  in  carcere  per  questo
procedimento dal 6 dicembre  2019  -  giusta  ordinanza  di  custodia
cautelare in carcere, per il capo 1), e di arresti  domiciliari,  per
il capo 2) (1) - veniva tratto a giudizio per rispondere dei  delitti
di cui agli articoli 612-bis, comma 2, del codice penale e 585-85 del
codice penale indicati nell'epigrafe del presente provvedimento. 
    Alla prima udienza dibattimentale del 5 marzo 2020,  si  rilevava
la regolarita' delle notifiche e, presente l'imputato,  si  ammetteva
la costituzione di parte civile della persona offesa C      P       .
Quindi l'imputato, per il tramite del  suo  difensore,  reiterava  ai
sensi dell'art. 448, comma 1, del  codice  di  procedura  penale,  la
richiesta di applicazione della  pena  ai  sensi  dell'art.  444  del
codice di procedura penale gia' formulata all'Ufficio di Procura  nei
termini previsti dalla legge, e il pubblico ministero  illustrava  le
motivazioni del dissenso gia' espresso,  producendo  tra  l'altro  la
documentazione attestante  la  precedente  interlocuzione  sul  punto
avvenuta tra le parti. 
    Preso  atto  della  reiterazione  del  dissenso,  questo  giudice
procedeva all'apertura del dibattimento ed ammetteva i mezzi di prova
indicati dalle parti. Si iniziava quindi l'istruttoria dibattimentale
con l'escussione della persona offesa e degli altri  testi  d'accusa,
proseguendosi poi, con le  spontanee  dichiarazioni  dell'imputato  e
l'escussione dei testi della difesa, nelle udienze del 10 marzo  2020
e del 7 aprile 2020, disponendo rinvio per le conclusioni. 
    All'udienza  del   30   aprile   2020,   si   dichiarava   chiusa
l'istruttoria dibattimentale e si invitavano le parti a formulare  le
conclusioni. Terminata la discussione, prima di ritirarsi  in  camera
di   consiglio,   questo    giudice,    secondo    un'interpretazione
costituzionalmente e convenzionalmente orientata dell'art. 521, comma
1, del codice di procedura penale, invitava le parti a instaurare  il
contraddittorio in ordine ad un'eventuale riqualificazione  giuridica
del fatto contestato al capo 1) nell'ipotesi  incriminatrice  di  cui
all'art. 572 del codice penale, reato, tra  l'altro,  piu'  grave  di
quello di cui all'art. 612-bis  del  codice  penale,  contestato  nel
decreto di giudizio immediato. 
    Il  pubblico  ministero  e  la  difesa  di  parte  civile   nulla
osservavano, mentre l'imputato chiedeva la restituzione degli atti al
pubblico ministero ai sensi dell'art. 521, comma  2,  del  codice  di
procedura penale, rinvenendo un'ipotesi di fatto diverso, in modo  da
essere rimesso in termini per formulare richiesta di rito abbreviato;
in subordine, comunque, ove il fatto fosse  ritenuto  lo  stesso,  di
essere giudicato nelle forme del rito abbreviato. 
    Ritiratosi  in  camera  di  consiglio,  questo  giudice  rilevava
l'assenza  agli  atti  del   fascicolo   di   documentazione   medica
indispensabile per la decisione in merito al capo 2) dell'imputazione
ed emetteva ordinanza di rimessione della causa sul  ruolo  ai  sensi
dell'art. 525 del codice di procedura penale, rinviando al  9  giugno
2020 per l'acquisizione documentale sollecitata  ai  sensi  dell'art.
507 del codice di procedura penale. 
    All'udienza  del  9  giugno  2020,  acquisita  la  documentazione
indispensabile ai fini della decisione, il giudice dichiarava  chiusa
l'istruttoria  dibattimentale  e  invitava  le  parti   a   formulare
nuovamente  le  conclusioni,  che  venivano  rassegnate  da  ciascuno
riportandosi alle richieste illustrate  nell'udienza  del  30  aprile
2020;  a  tal  uopo  la  difesa  produceva   procura   speciale   per
l'ammissione al rito abbreviato illustrata in conclusioni. 
    All'esito della camera di  consiglio,  analizzate  le  risultanze
istruttorie e vagliate le argomentazioni delle parti, questo  giudice
ritiene che il fatto provato in dibattimento sia lo stesso rispetto a
quello contestato al capo 1) dell'imputazione,  ma  debba  ricondursi
all'alveo della diversa e ben piu' grave  ipotesi  incriminatrice  di
cui all'art. 572 del codice penale. Potrebbe  quindi  pervenire  alla
pronuncia decisoria nei termini di cui all'art.  521,  comma  1,  del
codice di procedura penale senza tenere  conto  della  richiesta  del
difensore di accedere al rito abbreviato, poiche' inammissibile,  non
essendo  contemplata  dalle  disposizioni  normative  un'ipotesi   di
rimessione in termini. 
    Cionondimeno, alla luce della richiesta formulata  dal  difensore
di essere ammesso al rito  abbreviato,  ritiene  di  dover  sollevare
questione  di  legittimita'  costituzionale   -   rilevante   e   non
manifestamente infondata - dell'art.  521  del  codice  di  procedura
penale, giusta l'assenza di una disposizione di legge che attribuisca
all'imputato - allorquando sia invitato dal giudice del  dibattimento
ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del
fatto - il diritto di  richiedere  al  giudice  del  dibattimento  il
giudizio abbreviato relativamente al fatto  diversamente  qualificato
dal giudice in esito al giudizio. 
 
                      Rilevanza della questione 
 
1.Le risultanze istruttorie nel procedimento a quo 
    Dal momento che la valutazione di medesimezza del fatto opera  su
un piano non astratto ma concreto e consiste  nel  verificare  se  il
fatto provato all'esito dell'istruttoria (2) , sul quale  il  giudice
fonda la sua decisione riqualificatoria, sia il  medesimo  di  quello
descritto in imputazione, non si ritiene corretto in  questa  sede  -
anche a rischio di penetrare nelle pieghe  dell'istruttoria  e  della
valutazione delle sue risultanze -  omettere  l'analisi  di  cosa  (e
come) sia emerso in sede istruttoria.  In  sostanza,  poiche'  logico
presupposto  dell'opera   di   riqualificazione   giuridica   e'   la
medesimezza dal fatto e quindi  l'identificazione  chiara  dei  fatti
provati e la loro corrispondenza con l'oggetto di imputazione  (3)  ,
sia  consentito  sostare  sul  primo  dei  presupposti  logici  della
riqualificazione. 
    Ebbene, all'esito dell'istruttoria dibattimentale, si ritiene che
gli episodi fattuali  emersi  in  sede  istruttoria  corrispondano  a
quelli decritti in contestazione ed il nucleo del fatto  sia  rimasto
immutato. Le risultanze dell'istruttoria dibattimentale hanno infatti
fornito prova dell'accadimento di siffatti episodi fattuali. 
    La parte civile ha superato il vaglio di attendibilita' oggettiva
e soggettiva, sia con riferimento al singolo episodio di lesioni  del
25  novembre  2019,  sia  con  riferimento  ai   fatti   oggetto   di
contestazione al capo 1): il racconto e' stato dettagliato,  genuino,
coerente, non contraddittorio, equilibrato e mai la signora C      ha
mostrato  tendenza  a  indugiare  in  descrizioni  sovrabbondanti   o
inutilmente mortificanti, pur mantenendo un apprezzabile  livello  di
precisione. Il suo racconto e' stato inoltre riscontrato: 
        (i) dai fotogrammi ritraenti le parti del corpo, visibilmente
compromesse, della C      immortalate  dai  Carabinieri  in  sede  di
denuncia  (cfr.  fascicolo  fotografico  agli  atti)   -   fotogrammi
riferibili non solo a lesioni  immediatamente  recenti,  ma  anche  a
cicatrici o segni piu' risalenti; 
        (ii) dalle dichiarazioni  del  figlio  C       D    S       ,
testimone diretto dello stato d'animo della madre, dei segni visibili
talora sul suo corpo, nei litigi telefonici tra lei e il  L      ;  e
testimone de relato dei fatti, poiche' destinatario delle  confidenze
successive della madre. 
        (iii) dall'annotazione di PG; 
        (iv) in parte, dalle  dichiarazioni  delle  stesse  testimoni
della difesa, ossia S     A     e L     R     , rispettivamente madre
e sorella  dell'imputato,  le  quali  hanno  entrambe  confermato  la
gelosia di L      e raccontato, per averlo appreso dalla C      ,  un
episodio  in  cui L        distrusse  il suo  telefono   -   telefono
riacquistato  dalla  stessa  S       .  L'unico  elemento   narrativo
frontalmente contrario rispetto ai fatti  oggetto  di  contestazione,
offerto dalle testimoni, e' stato dichiararsi ignare  delle  violenze
fisiche subite  dalla  C        .  Tale  elemento,  di  per  se'  non
determinante ai fini della decisione nella misura in cui non si  nega
che i fatti si siano verificati, ma soltanto che le donne ne  fossero
a  conoscenza,  si  e'  ritenuto  comunque  inattendibile  viste   le
contraddizioni del narrato. 
    Quanto all'imputato, L       si e' offerto di risarcire il  danno
- offerta rifiutata dalla parte civile -  e,  in  sede  di  spontanee
dichiarazioni, si e' detto profondamente pentito e ha  chiesto  scusa
(4) . 
    1.1. Di seguito si offrira'  la  ricostruzione  delle  risultanze
istruttorie per consentire - come si e' anticipato - a codesta Corte,
ai fini della valutazione di rilevanza della questione  proposta,  di
cogliere la concretezza del caso affrontato e, soprattutto, per  dare
conto con esaustivita' di quali siano le ragioni  che,  non  solo  in
astratto ma in concreto, impongono la scelta del  giudice  a  quo  di
riqualificare i fatti immutati nell'ipotesi di cui all'art.  572  del
codice penale. (5) 
    Prima di calarsi nel dettaglio, deve premettersi che i  fatti  di
minacce, ingiurie, pressioni e violenza -  condotte  costitutive  del
reato di stalking contestato al capo 1), e  descritte  nelle  lettere
a), c) ed e), quanto alle minacce, ingiurie, pressioni,  e  descritte
nelle lettere  b)  e  d),  quanto  alla  violenza  -  si  sono  tutti
verificati in costanza della relazione sentimentale tra la  C       e
il L      . 
    La persona offesa C       P       , giovane trentenne gia'  madre
di tre  figli,  due  dei  quali  minorenni,  ha  raccontato  di  aver
conosciuto l'odierno imputato L      E       ,  gia'  separato  dalla
vecchia moglie nell'agosto del 2019 e di averlo frequentato  fino  al
26 novembre 2019, data in cui  ha  sporto  la  denuncia.  Durante  la
relazione non vi fu stabile convivenza:  la  C        viveva  infatti
nell'abitazione con i suoi tre figli,  mentre  il  L         da  poco
separato dalla ex moglie vittima di maltrattamenti (cfr. condanna  n.
320/2018 emessa dal GIP presso il Tribunale di  Torre  Annunziata  in
data  11  ottobre  2018,  irrevocabile  il  5  marzo  2020),   viveva
nell'abitazione con la madre. 
    Tuttavia,  nonostante  non  vi  fosse  stabile   convivenza,   la
relazione  tra  loro  era  seria,   consolidata   e   fondata   sulla
condivisione dei rispettivi affetti: il L        era stato presentato
sin da subito ai figli della C       (cfr. dichiarazioni della C     
 e del figlio C      D   S       e talora usciva a passeggiare con la
C       e i figli o addirittura prelevava da  solo  il  figlio  della
C     , C     , in stazione quando il ragazzo faceva rientro  da  ove
lavorava (cfr. dichiarazioni della C       del figlio C       ).  Per
converso, la C      , introdotta  sin  da  subito  in  famiglia  come
compagna del L       , aveva stretto un  intenso  rapporto  affettivo
con la madre e la sorella dell'imputato, che frequentava  stabilmente
(cfr. dichiarazioni di S      A      e  L      R      rispettivamente
madre e sorella dell'imputato (6) ); quasi ogni pomeriggio, si recava
a casa della madre dell'imputato,  ove  spesso  si  tratteneva  anche
senza il L       attendendo il suo rientro da lavoro,  preparando  la
cena per tutti i familiari del compagno (cfr. dichiarazioni di  L    
R      ) e consumandola poi in  loro  compagnia  (cfr.  dichiarazioni
della C       e della madre dell'imputato); di frequente, trascorreva
in quella casa tutta la serata a guardare un film (cfr. dichiarazioni
della C       , e nel fine settimana,  si  fermava  a  dormire  (cfr.
dichiarazioni della madre dell'imputata). 
    1.2. Venendo ai fatti specifici di cui  all'imputazione,  secondo
quanto raccontato dalla C        , la relazione tra l'imputato  e  la
vittima,  inizialmente  serena,  si  rivelo'  dopo  poche   settimane
turbolenta: frequenti divennero i diverbi e crescente  ed  usuale  la
violenza dell'imputato, che prese l'abitudine di scagliarsi contro di
lei e colpirla con schiaffi e anche calci. 
    Le aggressioni fisiche dell'imputato erano determinate da  motivi
che non possono che definirsi futili (7)  ,  di  frequente  legati  a
gelosia (8) . (condotta di cui alla lettera b). 
    Il  L        addirittura,  la  privo'  dell'utilizzo  libero  del
telefono cellulare (che controllava continuamente, talora addirittura
deteneva vietandogliene l'uso e la cui scheda era comunque  intestata
a lui) (fatto indicato come evento del reato di cui al  capo  1),  le
vieto' i social network e, ogni qualvolta non erano insieme  ed  ella
non rispondeva al telefono, le telefonava con insistenza o le inviava
messaggi fino ad ottenere una risposta (circostanza confermata  dalla
stessa  sorella  dell'imputato  L      R      nel  corso  della   sua
deposizione (9) ) o addirittura la raggiungeva fin sotto casa,  anche
di notte, esigendo di parlarle  (circostanza  confermata  dal  figlio
C      D   S       nel corso della sua deposizione) (condotta di  cui
alla lettera a). 
    Nonostante mantenesse  riserbo  sulle  violenze  subite,  la  sua
relazione con il L        desto'  la  preoccupazione  di  suo  figlio
maggiorenne C       , il quale le chiese  ripetutamente  se  i  segni
visibili sul suo corpo fossero stati provocati  dall'imputato  ed  al
quale nascose la verita' - fino alla sera  del  25  novembre,  giorno
antecedente  alla  denuncia  -  addebitando  i  lividi  ad  incidenti
stradali o a sbadataggine (cfr.  circostanza  confermata  dal  figlio
C      D   S      nel corso  della  sua  lunga  deposizione  (10)  ).
D'altra parte,  lo  stesso  figlio  C        aveva  avuto  percezione
diretta delle intemperanze del L       ,  poiche',  in  un'occasione,
aveva assistito a una litigata tra la madre e il compagno al telefono
e, sentite le grida dell'uomo, aveva preso la cornetta  e  gli  aveva
chiesto contezza della sua  aggressivita'.  Addirittura,  il  ragazzo
aveva poi incontrato il L     unitamente  ad  altri  familiari  della
C       , alla Stazione di        solo per chiarire questo litigio  e
la questione si era chiusa li'.  Anche  la  C          ha  raccontato
questo episodio ed ha aggiunto che, in un litigio successivo tra  lei
e L       , suo  figlio  C         fu  destinatario  indiretto  delle
minacce poiche' il L        , riferendosi al  ragazzo,  disse:  «Si',
si', fa' veni' pure a' figliete, pecche' vatte pure  a'  figliete...»
(condotta di cui alla lettera c). 
    La donna ha precisato di aver provato piu' volte  a  troncare  la
relazione con  l'imputato  successivamente  ai  loro  litigi,  ma  di
esservi tornata puntualmente insieme dopo qualche giorno, poiche'  lo
amava, nutriva la speranza di poterlo cambiare ed aiutarlo a mitigare
il suo carattere irascibile ed aveva anche paura delle  sue  reazioni
al distacco (fatto indicato quale evento nel  corpo  dell'imputazione
di cui al capo 1). Innamorata del L        , per ridurre le occasioni
di litigio e proseguire la relazione, la C         aveva imparato  ad
assecondarlo in tutto e renderlo  continuamente  partecipe  dei  suoi
spostamenti. 
    La C         ha infine riferito che la relazione  con  l'imputato
la costrinse all'alterazione delle sue abitudini di vita, soprattutto
nel rapporto con i figli: in  particolare,  L         pretendeva  che
ella trascorresse in sua compagnia tutte le sere  -  e  non  soltanto
serate alterne, come era avvenuto in un pruno momento - e rincassasse
a tarda ora, o addirittura si trattenesse per la notte, anche  quando
non si era  organizzata  per  la  gestione  dei  figli.  Ella  -  per
proseguire la relazione, non volendovi rinunciare ed  avendo  piacere
di trascorrere la notte in compagnia di  L         -  lo  assecondo',
sebbene fosse consapevole del fatto che una mancanza cosi' assidua da
casa le creasse problemi, atteso che ivi  l'aspettavano  i  suoi  tre
figli, due dei quali minorenni (circostanza  -  quella  dei  ripetuti
rientri in tarda notte - confermata dal  figlio  C         nel  corso
della sua lunga deposizione). Non ha fatto  invece  riferimento  alla
paura  di  uscire  ed  incontrarlo  (come  invece  e'   indicato   in
contestazione). 
    Con riferimento all'episodio verificatosi il  25  novembre  2019,
oggetto di autonoma contestazione al capo 2) (ma  anche  condotta  di
cui alla lettera  d),  la  C          ha  raccontato  l'episodio  nei
termini  precisi  in  cui  e'  indicato  in  contestazione   (11)   ,
raccontando di un'aggressione da parte del L       , protrattasi  per
varie ore all'interno di un hotel in cui stava con  lui  trascorrendo
la notte, all'esito della quale, colpita con calci all'addome e  alla
schiena, trascinata per i capelli, sbattuta contro il muro e  colpita
alle gambe con una sedia di ferro, riporto' lesioni consistite  nella
frattura di una costola e vari diffusi e importanti traumi su viso  e
arti, guaribili in giorni venticinque (cfr. referto).  Fu  il  figlio
C        che  ha  confermato  la  circostanza  nel  corso  della  sua
deposizione) ad accoglierla sgomento  in  casa  il  mattino  seguente
all'aggressione  e  a  spingerla,  con  l'aiuto  di  amici  e   altri
familiari, nonostante le sue  resistenze,  a  raggiungere  il  pronto
soccorso e poi a denunciare. 
    Il giorno successivo all'aggressione senti' telefonicamente anche
l'imputato, il quale minimizzo' l'accaduto chiedendole di uscire e di
coprire i lividi con un po' di trucco (condotta di cui  alla  lettera
e). Dinanzi al suo rifiuto, L       la chiamo' ripetutamente, ma ella
non gli rispose piu' ed anzi si reco' a sporgere  denuncia;  da  quel
giorno, i due non si sono piu' incontrati. In data 6  dicembre  2019,
il L         e' stato attinto dalla misura della  custodia  cautelare
in carcere. 
    1.3. Vale la pena dare conto anche delle  risultanze  istruttorie
portate dalla difesa, poiche' tornera' utile, nel corso dei paragrafi
successivi,  tenere  presente  (a)  quale  sia  stata  la   strategia
adoperata dal difensore per difendersi dal fatto di cui al titolo  di
reato, contestato; e (b) se sia esigibile e corretto  pretendere  che
la difesa adoperi nel processo una strategia che  difenda  l'imputato
non solo dal titolo di reato contestato, ma  da  tutti  i  titoli  di
reato   astrattamente   compatibili   con   il   fatto   oggetto   di
contestazione, indipendentemente dalla  loro  enunciazione  nell'atto
d'accusa. 
    Invero, la C        ha precisato che l'unica persona con la quale
si confido' sulle violenze subite fu proprio S       A       ,  madre
dell'imputato, con la quale aveva un rapporto di viva  confidenza:  a
suo dire, la donna, notando i lividi ed  i  segni  sul  suo  volto  e
raccolte  le  sue  rivelazioni,  le  consiglio'  di  interrompere  il
rapporto con suo figlio, perche' non  era  giusto  che  soffrisse  in
questo modo, ma lei non ci riusci', poiche' troppo coinvolta. 
    La madre dell'imputato, nel  corso  della  sua  escussione  quale
teste della difesa, ha confermato  di  avere  avuto  un  rapporto  di
estrema confidenza e sincero affetto con la C        di aver  appreso
da lei che L        e aveva distrutto il  cellulare  per  ragioni  di
gelosia e di averlo ricomprato  a  sue  spese,  di  aver  consigliato
invano alla ragazza di lasciarlo, di aver appreso  dalle  sue  parole
della violenza subita il 25 novembre 2019,  poiche'  quella  mattina,
come tutte le mattine si sentirono telefonicamente e  la  ragazza  le
disse di essere in ospedale. 
    Tuttavia, ha negato di aver ricevuto confidenze sulle aggressioni
fisiche perpetrate da L        o di  aver  mai  notato  personalmente
segni sul corpo della ragazza, neppure il giorno  dopo  l'aggressione
del 25 novembre 2019. Ignara delle violenze fisiche si e'  dichiarata
anche la sorella dell'imputato L       R      . 
    Ora, a prescindere dal dettaglio delle valutazioni  in  punto  di
attendibilita' delle testi della difesa sui temi delle violenze - che
piu' correttamente deve trovare  altrove  la  sua  sede  (12)  -,  va
osservato che entrambe le donne - la S       e la L       , nel corso
della deposizione, si sono soffermate sulla forza e l'intensita'  del
legame  tra  la  C         e  L         ,  sulla  loro   complicita',
sull'assiduita' della loro frequentazione,  sull'intimita'  che  loro
stesse, in virtu' di quel legame, avevano creato con la C        ; ed
anche   sulle   «asperita'»   caratteriali   del   L          seppure
ridimensionandole. La S         ha  anche  chiaramente  affermato  di
essersi  accorta  delle  conseguenze  emotive  che  queste  asperita'
avevano prodotto sulla ragazza e, addirittura,  di  aver  tentato  di
dissuadere la  ragazza  a  continuare  il  rapporto  con  L         ;
suggerimento che la ragazza non aveva potuto accogliere  proprio  per
l'incapacita' di recidere il legame con l'imputato. 
2. La riconducibilita' del fatta di cui al capo 1)  alla  fattispecie
incriminatrice di cui all'art. 572 del codice penale 
    Essendovi, come visto, corrispondenza tra i fatti storici oggetto
di  imputazione  e  i   fatti   emersi   all'esito   dell'istruttoria
dibattimentale,  questo  giudice  ritiene  di  doverli  riqualificare
nell'ipotesi incriminatrice di cui all'art. 572 del codice penale. 
    Va a tal proposito osservato che i fatti addebitati  all'imputato
in imputazione, connotati, quanto alla condotta, da un alto grado  di
violenza e, quanto all'evento, da uno stato di paura, ma anche da uno
stato di mortificazione e dipendenza  fisica  e  psichica  importante
nella  vittima,  si  sono  svolte  in  costanza  di   una   relazione
sentimentale stabile tra le parti, che  non  ha  avuto  soluzione  di
continuita'. 
    Alla luce di tali due elementi (ossia, da un  lato,  la  gravita'
dell'evento psichico - gia' descritto in imputazione - e le condotte,
che non si sono limitate - gia'  in  contestazione  -  a  minaccia  e
molestia; e dall'altro,  la  presenza  di  una  relazione  stabile  e
consolidata tra le parti) non appare corretta,  a  parere  di  questo
giudice, la riconduzione operata dall'Ufficio di  Procura  dei  fatti
oggetto  di  imputazione  alla  fattispecie  incriminatrice  di   cui
all'art. 612-bis, comma 2, del codice penale. 
    2.1. Va premesso che  la  ratio  di  politica  criminale  che  ha
sorretto l'introduzione legislativa della fattispecie di cui all'art.
612-bis del codice penale, con l'art. 7 del decreto-legge 23 febbraio
2009, n. 11 («Misure urgenti in materia di sicurezza  pubblica  e  di
contrasto  alla  violenza  sessuale,  nonche'   in   tema   di   atti
persecutori»), convertito, con modificazioni, dall'art. 1,  comma  1,
della legge 23 aprile 2009, n. 38, induceva ad escludere che  i  casi
in cui tra vittima e carnefice fosse in corso una relazione affettiva
stabile potessero ricadervi (sul  punto,  icastico  il  richiamo  del
difensore al termine anglofono stalking che nel linguaggio giudiziale
da' titolo al reato e che implica etimologicamente la presenza di  un
cacciatore e di una preda (13) ). 
    Il legislatore intendeva colmare un vuoto  di  tutela  avverso  i
comportamenti persecutori, assillanti e invasivi della  vita  altrui,
introducendo, in linea con gli ordinamenti stranieri, l'art.  612-bis
del codice penale, per attribuire autonomo e aggravato rilievo penale
alle condotte di  minaccia  e  molestia  -  gia'  punite  come  reati
autonomi - quando le stesse fossero assillanti e reiterate  (trattasi
di reato abituale) ed idonee a  cagionare  almeno  uno  degli  eventi
indicati nel testo normativo (trattasi di  reato  di  evento),  ossia
stato di ansia o di  paura,  timore  per  l'incolumita'  personale  e
cambiamento delle abitudini  di  vita.  In  tali  casi,  il  maggiore
disvalore giuridico del fatto e' giustificato dall'esposizione  della
vittima a gravi conseguenze nella vita emotiva (stato di ansia  e  di
paura ovvero timore per l'incolumita') e pratica  (cambiamento  delle
abitudini di vita). 
    Nel testo  normativo  originario,  a  conferma  della  fisionomia
criminale dello stalking quale condotta di  un  soggetto  allontanato
dalla vita della vittima il quale, perseguitandola, tenta di  rompere
gli argini di quel confinamento, militavano argomenti  interpretativi
inequivocabili. 
    La voluntas legislatoris appariva manifesta, in primis, nei  dati
statistici offerti dalla relazione di accompagnamento al  disegno  di
legge n. 1440, riportanti i casi riconducibili  alle  fattispecie  di
nuovo conio, facendo riferimento a condotte «commesse in un  caso  su
due (...) ad opera di ex mariti, ex conviventi  o  ex  fidanzati,  ma
(...) anche da conoscenti, colleghi o estranei». Nessuna menzione  di
condotte perpetrate dal partner in costanza di relazione. 
    In secondo  luogo,  con  riferimento  all'aggravante  di  cui  al
secondo comma dell'art. 612-bis  del  codice  penale,  nella  stesura
definitiva della disposizione originaria, non fu accolta la  proposta
di modifica della Commissione alla Camera, in cui  si  suggeriva  che
l'aggravamento della pena riguardasse  anche  il  coniuge  (non  solo
separato o divorziato)  e  la  persona  ancora  legata  da  relazione
affettiva alla persona offesa. 
    Da questi due dati,  emergeva  che  le  ipotesi  riconducibili  a
stalking perpetrate nell'ambito di una  relazione  affettiva  stabile
erano state ritenute, gia' dal legislatore del 2009,  statisticamente
risibili o comunque eccentriche rispetto alla ratio  di  introduzione
della fattispecie, e pertanto neppure meritevoli di  piu'  stringente
tutela - in distonia con la  fisionomia  di  altri  reati  contro  la
persona in cui la relazione affettiva e' elemento aggravante (14) . 
    2.2. Come noto, tuttavia, l'aggravante di cui  all'art.  612-bis,
comma 2, del codice penale e' stata poi modificata dall'art. 1, comma
3, lettera a), del decreto-legge n. 93/2013, convertito  dalla  legge
n.  119/20131,  sostituendo   all'espressione   «coniuge   legalmente
separato o divorziato» quella di «coniuge anche legalmente separato o
divorziato» ed attraendo nell'aggravante anche i  rapporti  affettivi
in corso. Questo ampliamento - in teoria ben chiaro nella  sua  ratio
di approntare una tutela rafforzata delle relazioni affettive in  cui
le minacce ben possono realizzarsi - ha snaturato, a parere di questo
giudice, la fisionomia criminis del reato di  stalking,  creando  dei
profili di sovrapposizione con il  reato  di  cui  all'art.  572  del
codice penale. Se le esigenze di politica criminale perseguite con la
novella del 2009 erano infatti quelle di colmare uno specifico  vuoto
di tutela, con l'obiettivo di punire «la reiterazione  insistente  di
condotte intrusive (15) , quali telefonate, appostamenti, pedinamenti
fino, nei casi piu' gravi, alla realizzazione di condotte  integranti
di per se'  reato  (minacce,  ingiurie,  danneggiamenti,  aggressioni
fisiche) (16) .», sarebbe stato logico  mantenere  differenziati  gli
ambiti applicativi della fattispecie di stalking, rispetto  a  quelli
del reato di maltrattamenti, poiche' era palesemente in contrasto con
la ratio legislativa (e si veda  in  tal  senso  la  -  probabilmente
superflua (17) - clausola di salvaguardia) la punizione  di  condotte
che gia' ricevevano  tutela  con  pene  piu'  gravi  nella  normativa
previgente. 
    Peraltro,  la  scelta  di   tenere   distinte   le   ipotesi   di
maltrattamenti e di  atti  persecutori  utilizzando  quale  parametro
distintivo la presenza di una stabile relazione affettiva  in  corso,
avrebbe  avuto  una  sua  ratio  di  politica  criminale  del   tutto
ragionevole: tenere condotte di minaccia o molestia nel  contesto  di
una relazione stabile,  reciprocamente  condivisa,  in  danno  di  un
partner il quale, nonostante le molestie e le minacce, non ha in  se'
le risorse emotive per respingere il reo, ed anzi, in una  situazione
di dipendenza affettiva e psicologica, subisce, ingoiandole,  le  sue
condotte e continua a vivere la relazione nella speranza  di  poterla
recuperare, evoca un fatto ascrivibile  a  pieno  titolo  alla  ratio
applicativa del reato di cui all'art. 572 del  codice  penale,  molto
piu' che nel terreno dello stalking che lascia ipotizzare la presenza
di una vittima che fugge e di un carnefice che insegue. 
    Tuttavia, come gia' detto, la  presenza  dell'aggravante  di  cui
all'art. 612-bis, comma 2, del codice penale, che attrae  alla  sfera
applicativa dell'art. 612-bis del codice  penale  anche  le  condotte
persecutorie tenute nei confronti di una persona della famiglia  lato
sensu intesa (nozione sulla  quale  ci  si  soffermera'),  impone  di
rivisitare  i  rapporti  tra  le  due  fattispecie  in   termini   di
sovrapposizione e di concorso apparente di  norme,  tenendo  presente
che la clausola  di  salvaguardia  contenuta  nell'art.  612-bis  del
codice penale rende espressamente sussidiaria l'ipotesi  di  stalking
rispetto a quella di maltrattamenti, punita piu' gravemente (18) . 
    2.3. Ebbene, venendo all'analisi comparativa  delle  fattispecie,
va osservato che innanzitutto l'oggettivita' giuridica  di  cui  agli
articoli 572 e 612-bis del codice penale  e'  diversa:  il  reato  di
maltrattamenti e' un reato contro la famiglia lato  sensu  intesa  (o
meglio contro l'assistenza famigliare) e il suo oggetto giuridico  e'
costituito dai congiunti interessi  dello  Stato  alla  tutela  della
famiglia da  comportamenti  vessatori  e  violenti  e  delle  persone
facenti parte della famiglia alla difesa  della  propria  incolumita'
fisica e psichica. Il reato di atti persecutori e' un reato contro la
persona e in particolare contro la liberta' morale, che  puo'  essere
commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia reiterati e  che
non presuppone l'esistenza di interrelazioni soggettive specifiche. 
    Venendo alla  struttura  dei  due  reati,  rispetto  all'asciutta
descrizione del delitto di maltrattamenti - concetto omnicomprensivo,
indeterminato o quantomeno elastico, che tra l'altro riassume in  se'
sia la condotta che l'evento  psichico  -,  il  delitto  di  stalking
attribuisce rilievo penale  alle  condotte  di  minaccia  o  molestia
idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla
norma incriminatrice, quali la modifica delle abitudini di  vita,  il
perdurante e grave stato di ansia e di paura e il fondato timore  per
l'incolumita'. La valutazione di idoneita' va  condotta  in  concreto
dal giudice il quale  dovra'  verificare  il  nesso  causale  tra  la
condotta posta in essere dall'agente e  i  turbamenti  derivati  alla
vita privata della vittima (cfr. fra le tante Cassazione n.  46331/13
e n. 6417/10). Con riferimento agli eventi, agevole e'  il  controllo
giudiziario sull'evento pratico ed esterno, quale la «modifica  delle
abitudini di vita»;  piu'  delicata  la  verifica  degli  eventi  che
riguardano  la  sfera  intima,  emotiva  e  psicologica,   quali   il
«perdurante e grave stato di ansia e di paura» e il  «fondato  timore
per  l'incolumita'»,  che  debbono  essere  accertati  attraverso  la
verifica di elementi  sintomatici  di  tale  turbamento  psicologico,
ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, messe in relazione alla
sua sensibilita' personale, ma  soprattutto  dai  suoi  comportamenti
conseguenti alla condotta posta in essere  dall'agente  ed  anche  da
quest'ultima, considerando tanto il suo profilo  concreto  quanto  la
sua astratta  idoneita'  a  causare  l'evento.  E'  poi  autonomo  ed
ulteriore il controllo della fattispecie soggettiva,  dovendosi,  tra
l'altro, ritenere rilevanti solo gli eventi conosciuti  dall'imputato
e da questi valutati per portare  a  compimento  il  proprio  intento
persecutorio. 
    Ponendo a confronto le due fattispecie, si evidenzia che,  quanto
alla condotta, i contegni di stalking - minacce  e  molestie  (19)  -
sono astrattamente idonei ad integrare la condotta di  maltrattamenti
di cui all'art. 572 del codice penale, che attrae  a  se'  tutti  gli
atti lesivi dell'integrita' fisica e morale della vittima,  e  quindi
non solo le  minacce  e  le  molestie,  ma  anche,  da  un  lato,  le
mortificazioni psichiche, e dall'altro, le ingiurie ed ogni forma  di
violenza. D'altronde, entrambi sono delitti abituali a forma  libera,
in cui le condotte si tipizzano per la loro idoneita' alla causazione
dell'evento. 
    A ben vedere  anche  gli  eventi,  non  omologabili  testualmente
difettando l'esplicitazione dell'evento nel delitto di  cui  all'art.
572 del codice penale (implicito nella descrizione della condotta che
attrae a se'  sia  l'atto  di  maltrattare  sia  l'evento  di  essere
maltrattati),   di   fatto    incontrano    numerosi    profili    di
sovrapposizione, almeno con riferimento  ai  due  eventi  alternativi
emotivi e psichici,  perche'  il  maltrattato  e'  chi  sviluppa  nei
confronti del maltrattante un sentimento di timore o, quantomeno,  di
paura e di stress. Ad un'attenta  analisi,  tuttavia,  lo  status  di
maltrattato implica un evento  psichico  piu'  complesso  della  sola
paura,  poiche'  la  vittima  vive  uno  stato  di   svilimento,   di
prostrazione, di sopraffazione  della  sua  personalita'  morale,  un
costante patimento, determinato da un regime di vita in cui  l'offesa
alla propria personalita' e' divenuta abitudine costante, cosciente e
volontaria da parte del soggetto attivo (20) . 
    L'unico elemento  di  specialita'  per  aggiunta  nello  stalking
rispetto al delitto di  maltrattamenti  e'  l'evento  della  modifica
delle abitudini di vita della  vittima,  che,  non  a  caso,  non  e'
richiesto   nell'art.   572   del    codice    penale,    fattispecie
dall'estensione dell'evento  psichico  evidentemente  piu'  ristretta
nelle sue ricadute tangibili e concrete. Del resto la modifica  delle
abitudini  di   vita,   sebbene   alternativo,   appare   emblematico
dell'originaria  vocazione  della  fattispecie  di   stalking   nella
modifica delle abitudini di vita della vittima causata dalle condotte
persecutorie si scorge quel tentativo - ma anche quella  capacita'  -
evitante della vittima rispetto alle persecuzioni del reo,  capacita'
che di regola non si riscontra ed infatti non e' richiesta nel  reato
di cui all'art. 572 del  codice  penale:  in  quest'ultimo  caso,  la
vittima subisce il maltrattamento perche', sentimentalmente legata al
maltrattante, ancora fortemente condizionata  dal  legame  affettivo,
non riesce ad allontanarsene - se non per brevi, faticosi momenti  -,
subisce e prosegue la relazione. 
    Per converso, l'art. 572 del codice penale presenta  un  elemento
di specialita'  per  specificazione  rispetto  all'art.  612-bis  del
codice  penale,  poiche',  quasi  a  compensare  la  vaghezza   della
descrizione onnicomprensiva della condotta/evento di  maltrattamenti,
e' fortemente restrittivo nell'individuazione dell'ambito applicativo
soggettivo: maltrattante e', per quanto qui rileva, solo  la  persona
della famiglia  o  comunque  convivente,  come  suggerisce  anche  la
collocazione sistematica della disposizione. 
    2.4.  Che  per  «famiglia»  dovesse  intendersi  la   «formazione
sociale», fondata oltre che sulla costanza del matrimonio  anche  sul
legame affettivo di chi l'ha costituita e da cui derivano i doveri di
solidarieta' materiale e morale di tutti coloro che tali legami hanno
creato, era noto ben prima della novella legislativa  del  2012  (21)
che ha aggiunto la dicitura «o comunque  convivente»,  positivizzando
un dato abbondantemente acquisito in via pretorile. 
    Del resto, un'interpretazione estensiva  dell'ambito  applicativo
soggettivo della norma e' in linea con la  ratio  dell'art.  572  del
codice penale, che  e'  quella  di  punire  autonomamente  colui  che
adoperi condotte maltrattanti in un contesto affettivo protetto e  di
tutelare la vittima che subisce, proprio nella dimensione emotiva  in
cui dovrebbe  ricevere  maggiore  cura,  condotte  di  prevaricazione
fisica o morale; e che, al contempo, anzi, proprio per la persistenza
del legame affettivo e per il condizionamento emotivo che  lo  stesso
esplica nella sua vita, fatica a riconoscere i suoi diritti,  la  sua
dignita' e il suo spazio di liberta' nonche'  ad  esercitare  la  sua
capacita' di difendersi. Le situazioni di vita  che  ricevono  tutela
nell'art. 572 del codice penale  sono  i  legami  affettivi  forti  e
stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per  colui  che
patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente  agevole
per colui che li  perpetua  proseguire.  Dal  punto  di  vista  della
vittima, la reazione e' inibita perche' profondo e' il sentimento  di
dipendenza  psicologica,   irrinunciabile   il   progetto   di   vita
intrapreso, pesante il senso  di  subordinazione  o  insuperabile  il
condizionamento materiale ed economico: la vittima  ritiene  comunque
di dover accettare o di non poter o saper rompere  il  rapporto.  Dal
punto di vista dell'autore, il legame affettivo  -  sebbene  sfibrato
dalle mortificazioni -, in uno con la  soggezione  psicologica  della
vittima,  la  sua  dipendenza  morale,  il  suo   affetto,   il   suo
condizionamento materiale ed economico, il suo  rispetto  del  valore
stesso  del  rapporto,  sono   gli   elementi   che   consentono   la
reiterazione, l'abitualita' dei suoi  comportamenti  di  negazione  e
mortificazione dell'impegno di  stabilita',  assistenza  reciproca  e
fedelta' (22) . 
    Verificata l'oggettivita' giuridica del reato, tenuto conto della
ratio legislativa della novella del 2012  di  estensione  dell'ambito
applicativo  del  reato  a  coloro  che  comunque  convivono,   ratio
legislativa improntata al rafforzamento della tutela  e  non  al  suo
indebolimento, deve comprendersi quale estensione  applicativa  abbia
il concetto di convivenza. 
    Sul punto, la giurisprudenza di legittimita' - come si  diceva  -
era stata molto chiara, anche  prima  della  novella  del  2012,  nel
ritenere persona di famiglia colei con la quale vi sia una  relazione
stabile e stabilmente organizzata, sia  pure  naturale  e  di  fatto,
prescindente dalla  stabile  coabitazione,  condivisa  nei  reciproci
ambienti di vita, fondata su unita' di intenti e progetti,  reciproca
assistenza, protezione e solidita'; caratteristiche  che,  per  vero,
costituiscono l'humus nel quale si innestano i condizionamenti subiti
dal maltrattato (cfr. Cassazione penale, Sezione quinta, Sentenza  n.
24688 del 17 marzo 2010, rv.  248312,  in  cui  si  afferma  che  «La
giurisprudenza di legittimita' ha da tempo chiarito che il delitto di
maltrattamenti in famiglia e' ravvisabile anche per  la  cosi'  detta
famiglia di fatto, ovvero quando in un consorzio di  persone  si  sia
realizzato, per strette relazioni e consuetudini di vita,  un  regime
di vita improntato a rapporti di  umana  solidarieta'  ed  a  strette
relazioni,  dovute  a  diversi  motivi,  anche  assistenziali   (vedi
Cassazione, Sezione terza, 3 luglio-3  ottobre  1997,  n.  8953).  La
sentenza citata ha, altresi', precisato  che  non  e'  necessaria  la
convivenza  e  la  coabitazione;  cio'  perche'  la  convivenza   non
rappresenta un presupposto della fattispecie criminosa in questione»;
o anche Cassazione penale, Sezione terza,  sentenza  n.  8953  del  3
luglio 1997 Ud. (dep. 3 ottobre 1997) Rv. 208444 - 01;  e  Cassazione
penale,  Sezione  sesta,  18  dicembre  1970,  ove  si  e'   ritenuto
sufficiente che tra i non conviventi vi fosse una  stabile  relazione
sessuale). 
    Ma, anche all'indomani della novella del 2012, la  giurisprudenza
ha operato un'interpretazione estensiva del concetto  di  convivenza,
valorizzando  ben  piu'   del   dato   formale   della   condivisione
continuativa di spazi fisici, il dato sostanziale della  condivisione
di progetti di vita  (cfr.  da  ultimo,  Cassazione  penale,  Sezione
sesta, sentenza n.  19922  del  2019,  ed  anche  Cassazione  penale,
Sezione seconda,  23  gennaio  2019,  n.  10222.  Piu'  diffusamente,
Cassazione penale, Sezione sesta, n. 31121 del  18  marzo  2014,  Rv.
261472, in cui si ritiene integrato il delitto di maltrattamenti  con
riferimento a due amanti non conviventi, «Da tempo la  giurisprudenza
ha chiarito che la norma di cui all'art. 572 del  codice  penale  non
riguarda  solo  i  nuclei  familiari  costruiti  sul  matrimonio,  ma
qualunque relazione che,  per  la  consuetudine  e  la  qualita'  dei
rapporti  creati  all'interno  di  un  gruppo  di  persone,  implichi
l'insorgenza  di  vincoli  affettivi  e  aspettative  di   assistenza
assimilabili a quelli tradizionalmente propri del  nucleo  familiare.
E' infatti in contesti del genere che sorge la primaria  esigenza  di
tutela assicurata dalla norma incriminatrice, cioe' quella di evitare
che dai vincoli familiari nascano  minorate  capacita'  di  difesa  a
fronte di  sistematici  atteggiamenti  prevaricatori  assunti  da  un
componente del gruppo: evitare cioe' che la relazione costituisca  al
tempo stesso l'occasione e la "vittima"  di  assetti  patologici  nei
rapporti interpersonali piu' stretti. Cio' detto, sembra chiaro  come
la fattispecie non esiga affatto il carattere monogamico del  vincolo
sentimentale posto  a  fondamento  della  relazione,  e  neppure  una
continuita' di convivenza, intesa quale coabitazione.  E'  necessario
piuttosto, ed unicamente, che detta relazione presenti  intensita'  e
caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e
solidarieta'.»). 
    D'altra parte, un'interpretazione siffatta e' l'unica compatibile
con  l'art.  3  della  Costituzione:  sarebbe  infatti  irragionevole
tutelare la vittima di mortificazioni abituali allorquando sia legata
da vincoli fondati sul matrimonio, anche  in  quei  casi  in  cui  il
rapporto sia ormai sgretolato e indebolito  nella  sua  capacita'  di
condizionare la vittima (si pensi al caso di ex coniugi, in relazione
ai  quali  la  giurisprudenza  ritiene  configurabile  il  reato   di
maltrattamenti e assorbito quello di atti persecutori aggravati  (23)
); e non tutelare, invece, la vittima di mortificazioni abituali  che
avvengono in contesti affettivi non suggellati da scelte formali,  ma
caratterizzati  comunque  dalla  attuale  condivisione  di  spazi   e
progetti di vita che condizionano fortemente la capacita' di  reagire
della vittima. 
    Va peraltro rilevato che,  anche  dopo  l'innovazione  del  2012,
secondo un'interpretazione letterale, la convivenza non  puo'  essere
ritenuta elemento costitutivo, ma solo residuale, del delitto di  cui
all'art. 572 del codice penale, in considerazione del  fatto  che  la
norma si riferisce, nell'indicare il soggetto passivo ad «una persona
della famiglia  o  comunque  convivente».  Del  resto,  le  ulteriori
ipotesi di rapporti giuridici presi  in  considerazione  dalla  norma
(sottoposizione ad autorita' o affidamento per ragioni di educazione,
istruzione, cura vigilanza custodia, ovvero per  l'esercizio  di  una
professione o  di  un'arte)  prescindono  tutte  dall'elemento  della
convivenza,  essendo  invece  dirimente  l'elemento   del   carattere
para-familiare dei rapporti (24) . 
    2.5. Ora, identificato il rapporto di specialita' bilaterale  tra
le fattispecie, posto che, per quanto di interesse, entrambi i  reati
possono essere integrati in corso  di  relazione  affettiva  (per  lo
stalking, in particolare,  nell'ipotesi  aggravata  di  cui  all'art.
612-bis, comma 2, del codice penale qui contestata),  deve  ritenersi
che il rapporto tra le fattispecie, in tal caso, si ponga in  termini
di gradualita' e approfondimento dell'offesa,  coerentemente  con  la
risposta sanzionatoria prevista dal legislatore,  che  vede  oggi  il
reato di maltrattamenti punito ben piu'  gravemente  del  delitto  di
atti persecutori anche nella forma aggravata. 
    Se le molestie e le minacce si  accompagnano  ad  altre  condotte
diverse  e  ancor  piu'  mortificanti  (quali   violenze,   ingiurie,
mortificazioni  e  pressioni  psicologiche)  tali  da  provocare  uno
svilimento della sfera morale ed emotiva della vittima e paralizzarla
nelle sue reazioni, la condotta e' idonea a  integrare  il  reato  di
maltrattamenti, per  cui  il  reato  di  stalking,  in  virtu'  della
clausola di salvaguardia, non potra' configurarsi. 
    Nel caso contrario - casisticamente limitato, restando l'art. 572
del codice penale l'ambito elettivo per  la  tutela  delle  relazioni
affettive esposte al rischio di distorsioni - in cui la  condotta  di
minaccia e molestie, pur generando nella  vittima  uno  degli  eventi
psichici alternativi del delitto di stalking, non si risolva  in  una
condizione di mortificazione insostenibile per  la  vittima,  perche'
costei, pur  impaurita,  sia  per  esempio  in  grado  di  reagire  e
fronteggiare il carnefice, offrendo condotte pari  e  contrarie  (25)
ovvero modificando le sue abitudini di vita in chiave respingente del
carnefice,  l'unico  reato  configurabile  sara'   quello   di   atti
persecutori nella forma aggravata. 
    D'altra  parte,  quando  la   condotta,   nel   tempo,   si   sia
progressivamente  concretata  in  atti  ben  piu'  gravi  delle  sole
molestie e minacce appare  evidente  dalle  stesse  condotte  che  la
vittima abbia sopportato dal carnefice molto piu' di quanto  avrebbe,
in una relazione percepita alla pari, consentito. 
    In tal modo, si offre una lettura del tutto  compatibile  con  il
dato normativo, poiche' e' fatto salvo lo  spazio  applicativo  della
fattispecie aggravata di cui all'art. 612-bis, comma  2,  del  codice
penale in caso di relazione affettiva o coniugale  ancora  in  corso,
ferma restando la sussidiarieta' della fattispecie ove il  fatto  sia
riconducibile all'ipotesi piu' grave di maltrattamenti 
    2.6. Applicando le  conclusioni  cui  si  e'  pervenuti  al  caso
oggetto di giudizio occorre rilevare che, al momento dei  fatti,  tra
la C      e L      vi  era  un  rapporto  di  condivisione  affettiva
stabile, come si evince nella stessa imputazione (cfr.  in  punto  di
indicazione dell'aggravante di cui all'art.  612-bis,  comma  2,  del
codice penale):  nonostante  non  vi  fosse  convivenza  a  carattere
continuativo, trattandosi tra l'altro, per entrambi, di  una  seconda
relazione a seguito di una prima  esperienza  relazionale  naufragata
(sono soggetti gia' separati e, almeno la C       ,  con  figli),  il
rapporto  era  serio,  stabile  e  fondato  sulla  condivisione   dei
rispettivi affetti. Il L       era stato presentato sin da subito  ai
figli della C       (cfr. dichiarazioni della C        e  del  figlio
C       D   S       ) e talora usciva a passeggiare con la C        e
i figli o addirittura prelevava da solo il  figlio  della  C        ,
C       , in stazione quando il ragazzo faceva rientro da  S        ,
ove lavorava (cfr. dichiarazioni della C       e del  figlio  C      
). Per converso, la C       introdotta sin da subito in famiglia come
compagna del L       , frequentava quotidianamente l'abitazione della
madre di L       ove costui viveva: quasi ogni pomeriggio, si  recava
in quella casa,  spesso  si  tratteneva  anche  senza  il  L        ,
attendendo il suo rientro da lavoro, preparando la cena per  tutti  i
familiari del compagno (cfr. dichiarazioni di  L        R        )  e
consumandola poi in loro compagnia (cfr. dichiarazioni della  C      
e della madre dell'imputato); di  frequente,  trascorreva  in  quella
casa tutta la serata a guardare un  film  (cfr.  dichiarazioni  della
C       ) e  nel  fine  settimana,  si  tratteneva  a  dormire  (cfr.
dichiarazioni della madre dell'imputato). Aveva  inoltre  stretto  un
intenso rapporto affettivo con la madre e la  sorella  dell'imputato,
che frequentava stabilmente (cfr. dichiarazioni  di  S        A      
L       R       , rispettivamente madre e sorella dell'imputato  (26)
). 
    Indubbia  la  condivisione  del  progetto  di  vita  ed  evidente
l'intenso legame affettivo, che si pervadeva nei reciproci ambiti  di
vita, avvincendo la C       al L       . 
    Il contesto e' quindi quello di una relazione affettiva attuale e
stabile, con doveri ed interessi reciproci, caratterizzata anche  dal
coinvolgimento degli amanti nei rispettivi rapporti  familiari,  tale
da attrarre le condotte tenute  dal  L        nel  campo  applicativo
soggettivo di sovrapposizione tra  la  fattispecie  di  cui  all'art.
612-bis, comma 2, del codice penale e 572 del codice penale. 
    2.7.  Poste  queste  premesse,  vanno  analizzate   le   condotte
contestate al L       e l'evento psichico ed eventualmente  materiale
prodotto nella C       . 
    Le condotte descritte in imputazione consistono, innanzitutto, in
violenze fisiche gravi, altamente lesive reiterate, sovente legate  a
ragioni di gelosia, (condotte descritte  alle  lettere  b  e  d);  le
stesse hanno trovato conferma in  sede  istruttoria  (cfr.  fascicolo
fotografico e  descrizione  della  vittima)  e  sono  parse  peraltro
sovente legate a motivi veramente futili. 
    Non mancano le violenze psicologiche, riconoscibili nell'atto  di
(i) distruggere, in piu'  occasioni,  il  telefono  della  vittima  e
privarla di un telefono a lei intestato e da lei gestito liberamente,
anche  mediante  uso  dei  social   network   (fatto   descritto   in
imputazione, pur avendo il pubblico ministero ritenuto un evento  del
delitto di atti persecutori, e non invece una condotta persecutoria);
(ii) aggredirla allorquando  scopri'  che  utilizzava  ugualmente  un
telefono al di fuori  del  suo  controllo  (condotta  descritta  alla
lettera  d);  (iii)  raggiungerla  sotto  casa,  anche  di  notte,  e
tempestarla di telefonate, ove non  fosse  agevolmente  raggiungibile
telefonicamente,  poi  ingiuriandola   (condotta   riconducibile   al
concetto di molestia descritta alla lettera a) (iv)  minacciare,  nel
corso di un litigio, di ledere l'incolumita' fisica di suo  figlio  -
ragazzo che incontrava anche da solo in stazione -  col  quale  aveva
peraltro gia' avuto un  confronto  acceso  (condotta  descritta  alla
lettera c); (v) pressarla per uscire, nonostante  i  visibili  lividi
sul volto che gli aveva provocato, invitandola a coprirli col  trucco
notte - condotta riconducibile al concetto di molestia descritta alle
lettera d). 
    Le  condotte  descritte,  secondo  quell'ottica,  di  cui  si  e'
discusso in precedenza, di approfondimento dell'offesa  intesa  quale
sistematica  mortificazione  del  legame  relazionale  ed  affettivo,
appaiono a pieno titolo sussumibili nell'art. 572 del  codice  penale
poiche', lungi dal risolversi in mere minacce  e  molestie,  si  sono
concretizzate in qualcosa di piu': sistematici e  coscienti  atti  di
prevaricazione fisica e psicologica  che  la  vittima  ha  ampiamente
tollerato senza opporre mai resistenza. 
    Oltre  alla  gravita'  delle  condotte  descritte,   che   paiono
esprimere per se' sole  con  pienezza  e  solidita'  il  concetto  di
maltrattamenti, elemento idoneo a dare corpo alla tipicita' del reato
e' anche l'evento psichico prodotto sulla C       . 
    In punto di evento, si esprime  innanzitutto  piena  condivisione
della tesi difensiva, nella parte in cui il difensore propendeva  per
l'esclusione, nel caso di specie, dell'evento  della  modifica  delle
abitudini di vita. Non e'  infatti  dato  di  riconoscere  nei  fatti
indicati in contestazione, e finanche  in  quelli  esplicitati  dalla
vittima in sede istruttoria, la  modifica  della  abitudini  di  vita
richiesta dalla norma incriminatrice  di  cui  all'art.  612-bis  del
codice penale. 
    Con riferimento ai primi, cioe' quelli  oggetto  di  imputazione,
l'Ufficio di Procura ritiene sia evento pratico del reato l'avere  la
C       (a) smesso di uscire  di  casa  per  non  incontrare  L      
(evento completamente smentito in  sede  istruttoria);  e  (b)  avere
acconsentito a detenere un telefono  intestato  all'imputato  (scelta
accusatoria che tradisce un equivoco sulla  ratio  dell'art.  612-bis
del codice penale e sul nesso causale tra condotta ed evento, poiche'
acconsentire a un'imposizione dell'imputato non  rientra  nell'evento
pratico della modifica della abitudini di vita - evento che  richiede
invece l'attivarsi dell'iniziativa reattiva della vittima  in  chiave
evitante delle persecuzioni del reo -  ma  esprime  semplicemente  la
tolleranza della condotta del reo, in cui si scorge al piu'  l'evento
psichico del reato). 
    Quanto poi alla pretesa modifica delle abitudini di vita riferita
dalla vittima in sede istruttoria consistente nel doversi  trattenere
la sera tardi con l'imputato, trascurando i suoi figli (che a  rigore
non   sarebbe   neppure   un   evento   contestato   nel    dettaglio
dell'imputazione) - tralasciando il fatto che la donna ha ammesso  di
intrattenersi con L       anche perche' aveva piacere  a  trascorrere
la  notte  con  lui  -  anche  questo  comportamento,  come  rilevava
correttamente la difesa, non e' idoneo a integrare una modifica delle
abitudini di vita  causata  dalla  condotta  persecutoria  in  chiave
evitante, ma esprime, ancora una volta, semplicemente  la  tolleranza
della condotta del reo, in cui si coglie al  piu'  l'evento  psichico
del reato. Vale la pena, peraltro, di precisare che l'assenza di  una
condotta concretamente evitante di modifica delle abitudini  di  vita
e'  proprio  uno  degli  elementi  che  conduce  a   propendere   per
l'integrazione dell'evento psichico  di  maltrattamenti,  secondo  le
coordinate  espresse  nel  paragrafo  precedente,  poiche'  manifesta
quello stato di svilimento e carenza di reattivita' della vittima che
e' tipico evento psichico implicito del delitto di maltrattamenti. 
    L'evento psichico, come rilevato nei paragrafi che precedono,  e'
un terreno che offre rischi di scivolamento, in sede probatoria,  tra
il  reato   di   atti   persecutori,   ove   l'evento   psichico   e'
alternativamente  esplicitato,  e  quello  di   maltrattamenti,   ove
l'evento psichico e' implicito. Quando la contestazione  contenga  in
se' - come accade nel caso di specie - l'evento  psichico  di  stress
paura e timore  per  l'incolumita'  esso  e'  idoneo  a  coprire  sia
l'evento di  maltrattamenti  che  quello  di  persecuzione,  e  sara'
necessario  vagliare  nel  merito  come  concretamente  l'evento   si
atteggi. Chiaramente, trattandosi di evento psichico, la prova dovra'
raccogliersi, come accade in tutte le verifiche di  stati  interiori,
emotivi o volitivi, privilegiando l'analisi oggettiva delle  condotte
di entrambe le  parti,  e  non  i  sentimenti  interiori  cosi'  come
riferiti in sede istruttoria. 
    Poste queste premesse, si  offre  all'interprete  un  profilo  di
ampia osmosi  tra  condotta  ed  evento,  poiche'  quanto  piu'  sono
dirompenti le condotte aggressive  del  reo  tanto  piu'  la  persona
offerta e' stata disposta,  gradualmente  nel  tempo,  a  sopportare,
mostrando quell'altissimo livello di prostrazione e svilimento  della
sua persona, di dipendenza psicologica, che costituisce, in uno  alla
paura e  al  timore  per  la  propria  incolumita',  il  dato  tipico
dell'evento  psichico  maltrattamenti.  Ne  deriva  che,  quando   le
condotte del  partner  trasmodino  in  attacchi  fisici  e  seri,  in
pratiche  di  controllo  sistematico  della  vita  altrui,  che   non
incontrano resistenza e  si  sviluppano  per  un  tempo  non  esiguo,
diventa  arduo   escludere   il   piu'   profondo   evento   psichico
caratterizzante della vittima maltrattata. 
    Nel caso di specie, la C       aveva sicuramente paura di L      
, aveva sicuramente timore per se' e per  i  suoi  cari  (cosi'  come
indicato in imputazione) ma la gravita' delle condotte che la  stessa
e' stata disposta a sopportare - in termini  di  privazioni,  pesanti
violenze culminate nella frattura di una costola e di  tre  dita,  di
rischi  che  concretamente  correva  per  se'  e  per   suo   figlio,
apertamente minacciato da L       , soggetto del quale ben  conosceva
l'indole violenta scatenatasi contro l'ex moglie - illumina un evento
inserito  in  un  contesto  di   paralisi,   coazione   a   ripetere,
conservazione del rapporto ad ogni costo, resistenza  al  cambiamento
(ampiamente dimostrata nelle parole del figlio e della  suocera)  che
conduce in modo chiaro, inequivocabile alla cifra dei maltrattamenti. 
    Questi elementi rendono ragione della riqualificazione  giuridica
dei fatti contestati al capo 1) nell'ipotesi  incriminatrice  di  cui
all'art. 572 del codice penale. 
3.  Il  potere  di  riqualificazione  giuridica   del   fatto   nella
fattispecie di cui all'art. 572 del  codice  penale,  trattandosi  di
stesso fatto 
    Non v'e' alcun dubbio che, nel caso di specie, il fatto  ritenuto
in decisione sia esattamente conforme e medesimo rispetto al fatto di
cui alla contestazione,  avendo  operato  questo  giudice  entro  gli
stretti  limiti  consentiti  dalla  riqualificazione  giuridica,   in
ossequio al principio iura novit curia. 
    3.1.  Va,  innanzitutto,  premesso  che  l'illustrazione,  teste'
operata, dei rapporti tra le due fattispecie in termini  di  concorso
apparente  di  nome,  risolto  con  applicazione  del  principio   di
specialita'   -   reso   addirittura   sovrabbondante   e    scontato
dall'utilizzo della clausola di salvaguardia di cui all'art.  612-bis
del codice penale - consente  di  ritenere  integrato  finanche  quel
requisito accreditato  dalla  dottrina  piu'  garantisca  per  aversi
medesimo fatto: e' noto infatti che una certa dottrina  ritiene  che,
in tanto possa parlarsi di stesso fatto, in quanto tra la fattispecie
originariamente contestata e la fattispecie individuata  dal  giudice
vi sia un rapporto di specialita' (27) . 
    3.2. D'altra parte, e' stato  correttamente  sostenuto  (28)  che
l'analisi circa la medesimezza del fatto non debba essere  affrontata
avendo riguardo alle fattispecie astratte secondo criteri di  diritto
sostanziale, ma piuttosto  in  concreto,  avendo  a  mente  il  fatto
processualizzato,  la  fattispecie  giudiziale,  nella  sua  unicita'
storica e nel suo dipanarsi  procedimentale.  Ebbene,  anche  secondo
questo approccio processualistico puro, che pone al centro il diritto
di difesa,  il  fatto  giudicato  nel  presente  giudizio  ed  emerso
all'esito dell'istruttoria  deve  ritenersi  immutato  rispetto  alla
contestazione. 
    Secondo questa prospettiva, per verificare che il  giudice  abbia
operato un'autentica riqualificazione giuridica e  non  abbia  invece
agito in violazione  del  principio  di  correlazione  tra  accusa  e
sentenza,  occultando,  dietro  la  riqualificazione  giuridica,  una
diversa ricostruzione del fatto rilevante ex art. 516 del  codice  di
procedura penale, finalizzata ad evitare la restituzione  degli  atti
all'Ufficio di Procura imposta dall'art. 521, comma 2, del codice  di
procedura penale in caso di fatto diverso gli elementi fattuali posti
alla base della fattispecie tipica  nuova  ritenuta  dal  giudice  in
sentenza devono trovare corrispondenza nei temi di prova  di  cui  si
compone  l'imputazione,   sebbene   siano   stati   poi   valorizzati
diversamente dal  giudice  all'esito  dell'istruttoria  (o  all'esito
della lettura degli atti, quando la riqualificazione opera in sede di
abbreviato). 
    Quanto piu' la tecnica  redazionale  utilizzata  dall'Ufficio  di
Procura per la stesura della contestazione sara'  stata  appropriata,
tanto  piu'  sara'  possibile  scorgere  tra  i  fatti   esposti   al
contraddittorio quelli utilizzati dal giudice nella costruzione della
nuova fattispecie - che, evidentemente, nell'ottica accusatoria erano
stati  ritenuti  ancillari  o  semplicemente   fraintesi   nel   loro
significato giuridico.  In  altri  termini,  se  nell'imputazione  la
condotta attribuita all'imputato e' descritta  in  termini  fattuali,
riferibili a circostanze determinate, e non  invece  parafrasando  le
espressioni che ricorrono nella  disposizione  normativa  (29)  ,  la
strada alla riqualificazione rispetterebbe a pieno  il  principio  di
correlazione tra accusa e sentenza  riferito  al  fatto,  poiche'  la
difesa avra' potuto instaurare il contraddittorio ed  organizzato  la
difesa su tutti gli elementi presi in considerazione dal giudice  per
operare una correzione in iure. 
    Nel  caso  di  specie  cio'  si   e'   puntualmente   verificato:
l'imputazione  e'  assolutamente  adeguata,   perche'   utilizza   un
approccio  concreto  nel  descrivere  i  fatti,  ma,  attraverso   lo
scheletro testuale, distribuisce  gli  elementi  del  reato  in  modo
puntuale in  modo  che  ne  emerga  chiaramente  il  significato  che
l'accusa vi ha attribuito in diritto. 
    Nel capitolo precedente, dedicato all'illustrazione delle ragioni
della riqualificazione, in nessun  passaggio  argomentativo,  si'  e'
utilizzato un  fatto  non  oggetto  di  imputazione,  quale  elemento
costitutivo del delitto di maltrattamenti, o comunque quale argomento
per la riqualificazione. 
    Si e' operato, dapprima, descrivendo i rapporti astratti  tra  le
fattispecie di cui all'art. 612-bis  del  codice  penale  e  572  del
codice penale e poi,  promuovendo  un'interpretazione  estensiva  del
concetto di famiglia e convivenza sostenuta anche in  via  pretorile,
si sono individuati i criteri risolutivi del  concorso  apparente  di
norme in caso di condotte poste in essere dal  partner  in  corso  di
relazione affettiva. 
    Dopodiche', ci si e' limitati a rilevare  che,  alla  stregua  di
quei criteri: 
        1) le condotte descritte in imputazione devono ritenersi, per
la loro gravita', quelle tipiche del delitto di maltrattamenti; 
        2) uno dei due eventi descritti in imputazione e  qualificato
giuridicamente dall'accusa come «modifica delle abitudini di vita» ex
art. 612-bis del codice penale deve ritenersi, sebbene  correttamente
descritto  in  fatto,  come  elemento  ascrivibile   all'area   delle
condotte, o, al piu'  puo'  costituire  uno  dei  fatti  oggettivi  -
unitamente a tutte le  altre  condotte  -  da  cui  tratte  la  prova
dell'evento psichico di maltrattamenti; 
        3) gli eventi menzionati (30)  in  imputazione  quali  eventi
psichici del delitto di atti persecutori, tenuto conto della gravita'
delle condotte e della  dirompenza  dell'evento  di  lesioni,  devono
ritenersi  quelli  tipici  dell'evento  psichico   del   delitto   di
maltrattamenti. 
    3.3.  Non  sfugge  peraltro  a  questo  giudice  che  i   criteri
illustrati, che pure  sono  soddisfatti  nel  caso  in  specie,  sono
incomparabilmente  piu'  restrittivi  di  quelli   utilizzati   dalla
giurisprudenza di legittimita' in tema di riqualificazione  giuridica
del  fatto  (cfr.  Cassazione,  Sezioni  unite  19  giugno  1996,  Di
Francesco, in Cassazione penale 1997, p. 367), alla stregua dei quali
non v'e' dubbio alcuno che il  caso  di  specie  si  annoveri  tra  i
mutamenti di nomen iuris. 
    Secondo la giurisprudenza di legittimita', il fatto  ritenuto  in
sentenza e' diverso ed obbliga all'epilogo di cui all'art. 521, comma
2, del codice di procedura penale, solo (i) quando  sia  radicalmente
trasformato e logicamente incompatibile rispetto a quello contestato,
restando irrilevanti variazioni che non  incidono  sul  nucleo  della
condotta (Cassazione 6 febbraio 2014,  M.,  in  CEDCass,  m.  260156;
Cassazione 16  dicembre  2015,  Addio,  in  CEDCass,  m.  265946);  o
addirittura, secondo la c.d. teoria funzionale del fatto (ii)  quando
sul fatto diverso da quello oggetto di  imputazione,  la  difesa  non
abbia potuto esercitare il diritto al contraddittorio (Cassazione  18
giugno  2013,  Crescioli,  in  CEDCass,  m.   257015).   La   teoria,
argutamente, inverte l'ordine  logico  tra  diversita'  del  fatto  e
lesione del diritto di difesa: il fatto non lede  il  contraddittorio
perche' e' diverso; ma e' diverso perche' lede il contraddittorio. 
    Frontalmente   contrastata   dalla   dottrina,   questa    prassi
consentirebbe quello  che  viene  dalla  dottrina  definito  il  c.d.
«doppio scarto dall'accusa» (31) , sia  in  punto  di  fatto  che  di
diritto,   metodo   col   quale   la    giurisprudenza    amplierebbe
irreparabilmente lo spazio  di  applicazione  della  riqualificazione
giuridica, a detrimento del diritto di difesa.  Senza  pretendere  di
esaurire il lungo - e ben piu' autorevolmente sostenuto  -  dibattito
sul tema, sara' utile, nei paragrafi che seguono, tenere ben presente
la vis espansiva che il potere riqualificatorio del  giudice  conosce
nella prassi. 
    3.4. Va infine  segnalato  che,  in  numerosi  casi  analoghi  ma
riferiti all'ex coniuge, la giurisprudenza di legittimita' ha ammesso
la riqualificazione del fatto nell'ipotesi di cui  all'art.  572  del
codice penale anche in sede  decisionale,  ritenendo  che  l'imputato
avesse piena consapevolezza, fin dall'origine del  procedimento,  dei
fatti storici ascrittigli, sebbene gli stessi andassero  squalificati
- restando il nucleo fattuale identico - e sussunti, in ragione della
clausola di assorbimento  prevista  dallo  stesso  art.  612-bis  del
codice  penale,  sotto  il  regime  della  fattispecie  speciale  dei
maltrattamenti in famiglia (sul punto,  Cassazione,  Sezione  quinta,
Sentenza n. 4166 del 4 maggio 2016 Ud. (dep. 4 ottobre 2016). 
4. La preclusione per l'imputato all'accesso al rito  abbreviato,  in
caso di riqualificazione giuridica  del  fatto  operata  in  sede  di
decisione 
    Chiarito che il fatto emerso all'esito dell'istruttoria  non  sia
diverso dal fatto oggetto di imputazione e che,  cionondimeno,  debba
essere riqualificato nell'ipotesi incriminatrice di cui all'art.  572
del codice penale, deve escludersi  che  la  richiesta  difensiva  di
restituzione degli  atti  all'Ufficio  di  Procura  strumentale  alla
rivalutazione dell'accesso al rito abbreviato formulata  in  sede  di
conclusioni  -  allorquando  le  parti   venivano   interpellate   ad
esprimersi in merito alla riqualificazione giuridica - possa  trovare
applicazione poiche' si e' fuori  dal  paradigma  previsto  dall'art.
521, comma 2, del codice di procedura penale. 
    La disciplina processuale prevista in  caso  di  riqualificazione
giuridica del fatto, in ossequio al principio iura  novit  curia,  e'
quella prevista dall'art. 521,  comma  1,  del  codice  di  procedura
penale, a norma  del  quale  «il  giudice  puo'  dare  al  fatto  una
definizione giuridica diversa da quella  enunciata  nell'imputazione,
purche' il reato non ecceda la sua competenza ne' risulti  attribuito
alla cognizione del tribunale  in  composizione  collegiale  anziche'
monocratica». 
    In tale contesto, neppure puo' trovare accoglimento la  richiesta
difensiva di ammissione al rito abbreviato, che va ritenuta tardiva e
inammissibile, poiche', a norma dell'art. 458 del codice di procedura
penale, la richiesta di rito abbreviato nel giudizio  immediato  deve
essere formulata, a pena di decadenza, entro  quindici  giorni  dalla
notificazione del decreto di giudizio  immediato.  Tale  termine  nel
caso di  specie  e  ampiamente  spirato,  ne'  vi  sono  disposizioni
normative che consentano, in questa ipotesi, di restituire l'imputato
nel termine per formulare la richiesta. 
    Orbene, questo giudice - per le ragioni che  si  illustreranno  -
dubita della tenuta costituzionale della norma di  cui  all'art.  521
del codice di procedura penale nella parte  in  cui  non  prevede  la
facolta' dell'imputato di richiedere il rito abbreviato relativamente
all'ipotesi riqualificata; e - per le ragioni  illustrate  -  ritiene
altresi' che la questione  di  legittimita'  costituzionale  di  tale
disposizione sia rilevante nel presente giudizio,  dal  momento  che,
ove  questa  venisse   dichiarata   costituzionalmente   illegittima,
l'imputato sarebbe giudicato nel giudizio a quo nelle forme del  rito
abbreviato. 
 
             Non manifesta infondatezza della questione 
 
    Tanto premesso in punto di rilevanza della questione nel caso  di
specie, ritiene questo giudice che la disposizione  di  cui  all'art.
521 del codice di procedura penale violi gli articoli  3,  24  e  111
della Costituzione per i motivi che  nei  paragrafi  che  seguono  si
esporranno. 
1. Premessa 
    Come noto, il potere attribuito al giudice,  ai  sensi  dell'art.
521, comma 1, del codice di procedura penale di operare  direttamente
in sentenza la riqualificazione  giuridica  del  fatto,  purche'  sia
immutato, e' storicamente ispirato al principio iura novit curia. 
    Tale  ampio  potere  del  giudice  sul  nomen  iuris  si   fonda,
storicamente, sull'assunto per il quale  l'attivita'  di  sussunzione
del fatto nella fattispecie astratta, a differenza dell'attivita'  di
accertamento del fatto (32) , e' neutra e meccanicistica,  scevra  da
valutazioni e apprezzamenti, fondata su criteri di pura  logicita'  e
operante   su   un   universo   normativo    governabile,    lineare,
comprensibile, ponderato. 
    Corollario   di    questo    assunto    e'    l'inutilita'    del
contraddittorioin iure, o meglio la sua rinunciabilita'  in  nome  di
esigenze ritenute ad esso sovraordinate; e sembrerebbe essere proprio
questa la ratio dell'art. 521,  comma  1,  del  codice  di  procedura
penale. 
    Senonche' questa premessa, ispirata al positivismo giuridico,  ha
offerto il fianco a una critica, ampiamente  condivisa,  che  ritiene
l'attivita'  interpretativa  ontologicamente  creativa:  complice  un
universo   normativo   polisemico   (33)   ,   multilivello,   talora
irrazionale, l'interpretazione del giudice, non improntata per natura
a criteri di scienza «forte»  e  irrimediabilmente  guidata  dal  suo
sistema valoriale e  da  condizionamenti  piu'  o  meno  consapevoli,
sarebbe un'attivita' non prevedibile, ne' univoca. 
    Posta in tali termini, la riqualificazione  giuridica  -  sebbene
irrinunciabile  in  quanto  corollario  del  principio  di  legalita'
sostanziale e del suo rovescio processuale, ossia la  soggezione  del
giudice alla legge - operata addirittura in decisione «a sorpresa» ai
sensi dell'art. 521, comma 1, del  codice  di  procedura  penale,  e'
tutt'altro che un evento  neutro  ed  appare  piuttosto  una  vicenda
traumatica per tutte le parti. 
    Il legislatore del 1988 ben conosceva il potenziale  impatto  che
la riqualificazione aveva sulle posizioni delle  parti,  ma,  per  il
timore che la prerogativa riqualificatoria  del  giudice  ne  uscisse
indebolita, si scelse di sacrificare le garanzie difensive (34) . 
    1.1. E' stata necessaria una decisa spinta  della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo per chiarire che il costo di questa scelta, si'
categorica, fosse troppo alto in termini di sacrifico dei diritti  di
difesa:  la  giurisprudenza  della   Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  ha
infatti chiarito, con il noto caso Drassich (35) , che  il  mutamento
della qualifica giuridica rappresenta una frattura nel  processo,  al
ricorrere della quale il diritto  di  difesa  deve  essere  garantito
quantomeno  nella  declinazione   di   diritto   al   contraddittorio
argomentativo e probatorio. 
    In estrema sintesi, si e' stabilito che l'art. 6, 1 e 3,  lettere
a) e b) della Convenzione  europea  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, cosi' come  enucleati  in  via  interpretativa
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, riconosce all'imputato  il
diritto di essere informato, in termini  dettagliati,  non  solo  dei
«fatti  materiali»  addebitatigli,  ma  anche  della  «qualificazione
giuridica» degli stessi e di ogni possibile  loro  modificazione  nel
corso del giudizio. Tale diritto  e'  funzionale  a  quello  previsto
all'art. 6, lettera b), cioe' a consentire all'imputato  di  disporre
di un tempo sufficiente per preparare la propria difesa sull'elemento
mutato, sia esso in fatto sia in diritto. 
    Il contenuto del diritto peraltro appare  ripreso  nell'art.  111
della Costituzione. 
    1.2. A fronte di una  restituzione  di  dignita'  piu'  piena  al
diritto di difesa, progressivamente delineatasi nelle pronunce  della
Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  (36)  ,  forte  e'  stata  la
tentazione di cercare nei principi sovrazionali i criteri  guida  per
eliminare ogni residuo ostacolo all'estrinsecazione  del  diritto  di
difesa, in tutte le sue declinazioni, ivi compresa  la  richiesta  di
riti alternativi, nei fenomeni di mutamento dell'imputazione. 
    E' da ascriversi a tale tentativo, approdato tuttavia nell'ambito
del diritto dell'Unione  Europea,  la  recente  ordinanza  di  rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia  dell'Unione  Europea  proposta
dal Tribunale di Brindisi (37) , il quale ha dubitato che l'art.  521
del codice di  procedura  penale,  nella  misura  in  cui  disciplina
diversamente quaestio facti e iuris ed impedisce, solo nella modifica
in  iure,  l'accesso  al  patteggiamento,  sia  compatibile  con  gli
articoli 2, 3, par. 1, lettera c), e 6, par. 1-3 della  direttiva  n.
2012/13/UE e con l'art.  48  della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'UE  (CdfUE),  riguardanti  il  diritto  all'informazione   delle
persone indagate e imputate. 
    L'apprezzabile tentativo, come noto, non ha condotto ai risultati
sperati, non perche' la premessa giuridica  di  fondo  difettasse  di
fondatezza,  ma  perche',  secondo  la  Corte  di  Giustizia  (38)  ,
garantire il diritto di difesa  in  ogni  sua  declinazione  -  anche
quindi  nella  scelta   del   rito   -   a   fronte   dei   mutamenti
dell'imputazione, sia in fatto che in  diritto,  e'  una  scelta  che
svetta al  di  sopra  di  quegli  standard  minimi  di  tutela  delle
garanzie, fissati nel diritto dell'Unione Europea, e, indirettamente,
dal diritto convenzionale (39) . Le fonti sovranazionali, operando su
un'eterogeneita' di sistemi  ordinamentali,  si  limitano  a  fissare
standard minimi inderogabili, che  sta  poi  al  singolo  legislatore
interpretare e declinare secondo le proprie direttive costituzionali.
Con riferimento al caso esaminato, la Corte osserva che, in  caso  di
mutamento dell'imputazione, il riconoscimento del diritto di accedere
al rito alternativo e' una  componente  del  diritto  di  difesa  non
disciplinata dal diritto dell'Unione ne' tutelata in  modo  specifico
in sede convenzionale, e che evidentemente si  colloca  al  di  sopra
degli standard minimi. 
    1.3. Da questo complesso  quadro,  si  desume  che,  in  caso  di
mutamento in iure: 
        a) e' riconosciuto il diritto di difesa nella dimensione  del
diritto al contraddittorio argomentativo e probatorio.  E',  infatti,
gia'   possibile   per   il   giudice   operare    un'interpretazione
costituzionalmente e convenzionalmente orientata  dell'art.  521  del
codice di procedura penale (alla luce degli  articoli 24,  111  della
Costituzione, 117  della  Costituzione,  norma  interposta  integrata
dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali) nel senso che  essa  imponga
al giudice, prima  della  deliberazione  della  sentenza  (40)  ,  di
instaurare il contraddittorio argomentativo e probatorio della difesa
in ordine alla riqualificazione giuridica del fatto (41) . 
        b)  non  e'  riconosciuto  il   diritto   di   difesa   nella
declinazione  di  diritto  alla  scelta  del  rito,  nonostante  esso
costituisca «una modalita', tra le piu'  qualificanti,  di  esercizio
del diritto di difesa» (ex plurimis, Corte costituzionale n. 219  del
2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995, n. 76 del  1993,  n.  237  del
2012, n. 141 del 2018; e di recente,  in  un  caso  di  straordinario
interesse per il tema della mutatio in iure, la n. 131 del 2019  (42)
. 
    Il diritto di difesa, in caso di mutatio in iure, e' inteso  solo
come diritto all'argomentazione  contraria  e  alla  controprova:  la
concessione di un termine al difensore -  che  la  sentenza  Drassich
suggerisce - e' strumentale alla riorganizzazione  della  difesa  nel
dibattimento,  attraverso  l'instaurazione  di   un   contraddittorio
argomentativo o probatorio (43) . 
    Si sottovaluta,  in  altre  parole,  la  vocazione  ancipite  del
diritto di difesa, da intendersi sia come diritto  al  riassestamento
della strategia difensiva nel dibattimento,  sia  come  diritto  alla
rivisitazione della scelta del dibattimento. 
    Questa visione e' contraria sia agli  articoli  24  e  111  della
Costituzione, che all'art. 3 della Costituzione,  secondo  i  profili
che si illustreranno. 
    L'essenza  dell'incostituzionalita'  non   sta,   invece,   nella
irragionevolezza ex se della distinzione tra questio facti e  questio
iuris  (44)  ,  che  -  a  parere  di  chi  scrive  -  ha  una  ratio
costituzionale  ben  precisa,  poiche'  racconta  la  fisionomia  dei
rapporti tra giudice terzo e accusatore, padrone del  fatto  e'  solo
l'accusa (e il giudice ne e' vincolato, per cui, se  ritiene  che  il
fatto sia diverso, deve restituirgli gli atti ex art. 521,  comma  2,
del codice di procedura penale),  padrone  del  diritto  e'  solo  il
giudice (e il  giudice  e'  libero  per  cui,  se  ritiene  il  fatto
diversamente qualificato, puo' decidere ex art.  521,  comma  1,  del
codice di  procedura  penale).  Tuttavia,  questo  bilanciamento  nei
poteri,  questo  «gioco  delle  parti»  non  puo'  risolversi  in  un
detrimento per la difesa, ne' nel primo ne' nel secondo caso. 
    Riconoscere, in casi siffatti, la dimensione piena del diritto di
difesa, anche nella  declinazione  della  scelta  del  rito,  e'  una
conquista in termini di garanzie di liberta' nel processo, che sembra
svettare al di  sopra  degli  standard  minimi  fissati  dal  diritto
convenzionale e comunitario (45)  .  Non  sembra,  pertanto,  potersi
attingere a questa fonte per trarre principi guida utili. 
    Cionondimeno, questo  best  standard  sembra  essere  stato  gia'
ampiamente raggiunto dal Giudice delle leggi, nella  sua  trentennale
riflessione condotta sui rapporti tra mutamento del fatto  e  diritto
di difesa: da questo  autentica  miniera  di  principi  -  pur  nella
diversita' sopra delineata, e che si riprendera', tra questio iuris e
quaestio facti - e' possibile  trarre  importanti  linee  guida,  che
spiegano in quale modo la scelta  normativa  di  precludere  il  rito
abbreviato anche in caso dimutatio in iure leda diritti di difesa, le
regole del giusto processo e il principio di uguaglianza. 
2. Violazione dell'art. 24 della Costituzione e dell'art.  111  della
Costituzione. 
    La riflessione sull'atteggiarsi dei rapporti  tra  mutamento  del
nomen iuris e  diritto  di  difesa,  e'  fibrillata,  soprattutto  in
dottrina,  in  seguito  al  menzionato  caso  Drassich  e  il  pregio
dell'approfondimento e' stato quello di offrire una  lucida  analisi,
con incredibile ricchezza di spunti, della  dinamica  traumatica  con
cui questo evento processuale si riverbera sul diritto di  difesa;  e
su come il diritto di  difesa  vada  tutelato  nella  sua  dimensione
diacronica, secondo i dettami dell'art. 111 della Costituzione. 
    Si e' gia' discusso di quali siano i criteri che una teoria  piu'
rigorosa e garantista adopera per delimitare il potere del giudice di
mutare  la  veste  giuridica,  senza  operare   surrettiziamente   un
mutamento del fatto; ma si e' anche vista la vis espansiva che a tale
potere viene attribuita, nell'interpretazione della giurisprudenza di
legittimita'. 
    Quale che sia il  confine  fissato  all'operazione  di  mutamento
officioso della veste giuridica, essa rappresenta ontologicamente una
frattura nel processo che non puo' ritenersi ridotta ad un'operazione
di esegesi della fattispecie astratta: attribuire  un  diverso  nomen
iuris all'esito del dibattimento, all'esito cioe'  della  costruzione
ultimata dei rispettivi, contrapposti, fatti processuali,  disorienta
le parti, poiche' sposta non l'impalcatura, ma le fondamenta di  quei
fatti, modifica la lente attraverso cui guardarli, valorizza elementi
che in imputazione vi erano, ma restavano nell'ombra. 
    Secondo  un'opinione  largamente  condivisa,  nell'operazione  di
interpretazione, la questio facti e quaestio iuris, sebbene  distinte
(46) , si porrebbero in una relazione di reciproca  dipendenza  e  il
risultato decisorio, nel dipanarsi processuale del  ragionamento  del
giudice, deriverebbe dal progressivo raffronto  tra  la  norma  e  il
fatto: in altre parole, il giudice guarderebbe  al  fatto,  non  come
entita' nuda, ma attraverso  la  «lente»  del  diritto.  Anche  nelle
modifichein iure rigidamente intese e  «non  mascherate»  esisterebbe
quindi un «movimento circolare» tra il piano del diritto e  il  piano
del fatto, tale per  cui  ogni  modifica  dell'uno  si  riverbera  in
qualche misura anche sull'altro. 
    Questa acuta riflessione ha il  pregio  di  far  comprendere  per
quale ragione, sebbene  il  mutamento  riguardi  il  solo  piano  del
diritto, la difesa (rectius, tutte le parti) debba essere ammessa non
solo ad argomentare la scelta in iure (quale sia la norma applicabile
al caso concreto e quale sia la  sua  corretta  interpretazione),  ma
altresi' a portare nuove prove (47) . 
    Il mutamento del nomen  iuris  presuppone  la  scomposizione  del
fatto ad opera  del  giudice  e  la  selezione  e  valorizzazione  di
elementi che, sebbene presenti, erano  secondari  o  impliciti  nella
imputazione. Cio' comporta l'esigenza per la  difesa,  oltre  che  di
discutere  dell'approdo  in  diritto,  di  ricomporre  gli   elementi
fattuali dell'imputazione,  di  rivisitare  le  operazioni  selettive
compiute dal giudice e, non da  ultimo,  di  contraddire  quei  fatti
secondari o comunque inesplorati, portando nuove prove contrarie  che
mettano in discussione la fonte da cui il fatto secondario  e'  stato
tratto, ovvero facciano emergere fatti incompatibili con  quel  fatto
secondario. 
    E allora, se uno spazio per  questo  diritto  al  contraddittorio
probatorio e' imprescindibile ed e' infatti garantito ai sensi  degli
articoli  24  della  Costituzione  e   111   della   Costituzione   -
quest'ultimo  inteso  come  principio  che  impone   di   verificare,
costantemente,  la  chiarezza  della   relazione   tra   imputato   e
imputazione -, non si vede perche' non  debba  essere  garantito,  ai
sensi delle medesime  coordinate  costituzionali,  il  diritto  della
difesa  di  rinunciare  a  quel  contraddittorio,  restituendole   la
possibilita' di rivisitare, alla luce dell'avvenuta frattura, la  sua
strategia anche nella  scelta  del  rito,  che  -  vale  la  pena  di
ripeterlo - e' una modalita', tra le piu' qualificanti, di  esercizio
del diritto di difesa (da ultimo, Corte  costituzionale  n.  131  del
2012). 
    Ben  potrebbe  la  difesa  ritenere  che  sui  fatti,  secondari,
impliciti o diversamente valutati, alla luce del nuovo nomen proposto
dal giudice, non vi  siano  i  medesimi  spazi  per  contraddire  nel
dibattimento che  aveva  inizialmente  valutato,  allorquando  quando
aveva, sulla scorta dell'imputazione, operato  la  scelta  del  rito;
spazi che nel dibattimento la difesa ha peraltro sfruttato  solo  per
contraddire  gli  elementi  della  fattispecie  originaria,   secondo
strategie che potrebbero addirittura risultare irreparabili alla luce
del fatto come interpretato  dal  giudice  in  funzione  della  nuova
fattispecie. 
    Ma vi e' di piu'. 
    La mutatio in iure, oltre a operare  uno  spostamento,  nel  modo
descritto  piu'  o  meno  ampio,  dei  temi  di   prova   -   fattore
condizionante essenziale nella scelta del rito, perche'  il  tema  di
prova  condiziona  la  sostenibilita'   del   contraddittorio   orale
(sollecitando considerazioni inerenti  alla  componente  propriamente
deflattiva del rito abbreviato) - puo' operare  anche  e  soprattutto
uno  stravolgimento  nella  risposta  sanzionatoria  -  fattore  che,
parimenti, esercita un potere condizionante fortissimo  sulla  scelta
del rito (perche' sollecita considerazioni inerenti  alla  componente
propriamente premiale del rito abbreviato). 
    2.1. Per  rendere  concreta  la  riflessione,  vale  la  pena  di
osservare che, ad esempio, nel caso di specie, come si e' gia' detto,
questo giudice, senza giudicare fatti diversi o nuovi, si e' limitato
a valorizzare un fatto secondario nell'imputazione, ossia il rapporto
tra vittima e reo,  che  era  peraltro  indicato  espressamente  come
elemento nella contestazione dell'aggravante. 
    Si e' poi valorizzato il grado di  dirompenza  delle  condotte  -
anche esse contestate. 
    Si   e',   infine,   approfondito   nel   merito,    nel    corso
dell'istruttoria, come le condotte contestate avessero avuto  impatto
sulla vittima, producendo in lei un evento psichico di paura, timore,
asservimento e prostrazione. Di tale  evento  -  anch'esso  implicito
nell'imputazione - si e' tratta prova, piu'  che  dall'istruttoria  -
ne' piu' ne' meno che - dalle stesse condotte con testate. 
    Ora, la  difesa,  interpellata  sulla  riqualificazione,  avrebbe
potuto, oltre che contrastare in diritto l'interpretazione offerta da
questo giudice dell'art. 572 del codice  penale  e  dei  rapporti  in
astratto con la fattispecie contestata di cui all'art. 612-bis, comma
2,  del  codice  penale,  anche  contrastare  nel  merito  il  fatto,
implicito, secondario, o diversamente valorizzato da  questo  giudice
nella contestazione. 
    Tuttavia, la difesa, che nel dibattimento aveva, evidentemente in
chiave strategica, gia'  portato  prove  dichiarative  e  documentali
volte a dimostrare proprio che la relazione tra le parti, per la  sua
intensita' e per la solidita' del legame, sfuggisse alla  fattispecie
tipica del delitto di cui all'art. 612-bis del codice penale,  si  e'
trovata invece spiazzata. Le prove portate, se da un  lato  le  hanno
consentito di difendersi da almeno uno dei  fatti  costitutivi  della
fattispecie contestata - la carenza dell'evento pratico  e  materiale
di modifica delle abitudini di vita  -  hanno  cionondimeno  scontato
l'effetto indesiderato  di  arricchire  e  porre  luce  su  un  fatto
implicito   dell'imputazione,   che    ha    attratto    il    fatto,
complessivamente ricomposto secondo la  lente  utilizzata  da  questo
giudice, verso una fattispecie diversa e ben piu' grave. 
    Ben pochi spazi di contraddittorio  probatorio  ha  evidentemente
rinvenuto la difesa alla luce  della  riqualificazione  proposta,  ed
infatti,  interpellata  sulla  prospettiva  riqualificatoria,  si  e'
limitata a chiedere di poter essere messa in condizioni  di  rivedere
la sua scelta nella selezione del rito adeguato,  essendone  cambiati
in modo importante due fattori condizionanti: il thema  probandum  e,
anche, la pena applicabile (portata, nel minimo  -  con  la  recidiva
contestata - da due anni a quattro anni e sei mesi, quindi  oltre  il
doppio) e quindi anche il quantum della sua riduzione. 
    2.2.  Non  si  vuole,  qui,  ignorare  l'esistenza  di  argomenti
contrari al riconoscimento di un diritto  di  difesa  cosi'  pieno  -
inteso sia come diritto al riassestamento della  strategia  difensiva
nel dibattimento, sia come diritto alla  rivisitazione  della  scelta
del dibattimento - innanzi a un'eventualita' necessaria e fisiologica
del processo, quale e' la  riqualificazione  del  fatto  operata  dal
giudice all'esito del giudizio. 
    Anzi, vale la pena di sviscerare questi argomenti per  dimostrane
la debolezza. 
    In primis, vi e'  il  binomio  premialita'/deflazione,  autentica
ratio  del  rito  alternativo,  che  potrebbe  apparire   mortificata
dall'amissione  dell'imputato  al  rito  premiale  in  una  fase  non
fisiologica,  a  dibattimento  gia'  svolto:   l'avvenuto   dipanarsi
dell'istruttoria  sembrerebbe  disintegrare  il  corrispettivo  della
premialita', che non avrebbe piu' ragion d'essere (48) . 
    Come noto, questo argomento ha rappresentato  un  ostacolo  anche
nel graduale, trentennale processo di riconoscimento del  diritto  di
difesa in tutte le sue  declinazioni,  in  caso  di  mutamento  della
contestazione in fatto. 
    Senza  alcuna   pretesa   di   esaustivita'   sulla   riflessione
trentennale, va ricordato che il codice del 1988 non prevedeva che il
mutamento  dell'imputazione  in   fatto,   avvenuto   attraverso   la
contestazione suppletiva di un fatto nuovo, di un fatto diverso o  di
una circostanza aggravante, producesse  nel  diritto  di  difesa  una
tensione  tale  da  rendere  doveroso  restituirla  nel  termine  per
rivalutare la sua strategia, anche attraverso la richiesta di un rito
alternativo.  La  tensione  -  si  badi  bene  -  era   pacificamente
riconosciuta (49) , ma il diritto di difesa era garantito  solo  come
diritto  alla  controprova:  la  concessione  di   un   termine   per
riorganizzare la difesa era strumentale alla difesa nel dibattimento,
attraverso  l'instaurazione  di  un  contraddittorio   probatorio   -
inizialmente limitato negli angusti spazi dell'art. 507 del codice di
procedura penale e poi divenuto (50) - pieno. 
    Sono state necessarie  numerose  pronunce  additive  della  Corte
costituzionale, per riconoscere progressivamente, per  ogni  tipo  di
mutamento in facto - fatto nuovo, fatto diverso, nuova circostanza  -
imposto dalle risultanze gia' agli atti o emerso per la  prima  volta
in dibattimento - contestazione patologica o fisiologica - il diritto
di accedere a qualunque rito alternativo. 
    Non sfuggono le  assonanze  con  l'evoluzione  dei  rapporti  tra
mutatio in iure e diritto di difesa. 
    Ebbene, con  riferimento  al  binomio  deflazione-premialita',  a
chiare lettere, la Corte costituzionale ne  ha  sancito  la  assoluta
sub-valenza rispetto ai principi costituzionali di cui all'art. 24  e
all'art. 3 della Corte  (51)  ,  riconoscendo  che  la  logica  dello
«scambio» fra sconto di pena e risparmio di energie processuali debba
comunque cedere di fronte all'esigenza di  ripristinare  la  pienezza
delle garanzie difensive e l'osservanza del principio di eguaglianza. 
    Del resto, nel caso dimutatio in iure all'esito dell'istruttoria,
non  vi  sarebbe  neppure  una  completa  rinuncia  alla  deflazione,
giacche',  come  si  e'  detto,  l'imputato,  posto  di  fronte  alla
riqualificazione giuridica, sarebbe chiamato ad  operare  una  scelta
tra l'integrazione del contraddittorio probatorio sui nuovi temi e la
rinuncia al contraddittorio con l'acquisizione,  altresi',  di  tutti
gli atti del fascicolo ampliando la piattaforma probatoria  con  atti
meno garantiti di cui aveva inizialmente  valutato  la  sconvenienza;
ragion  per  cui   la   premialita'   troverebbe   un   corrispettivo
nell'evitamento dell'ulteriore approfondimento istruttorio (52) . 
    2.3. Altro argomento contrario al riconoscimento del  diritto  al
rito alternativo in caso di mutamento in iure e' quello per il  quale
la modifica della veste giuridica dovrebbe  considerarsi  un  rischio
del dibattimento che l'imputato si addossa allorquando  opta  per  il
rito ordinario. 
    Siffatto argomento ha rappresentato, come noto, un ostacolo anche
per il riconoscimento del diritto di accesso ai riti  alternativi  in
caso di contestazioni suppletive: si  osservava  che,  se  l'imputato
voleva porsi al riparo dal rischio  delle  contestazioni  suppletive,
ben avrebbe fatto a tenere una condotta diligente optando per il rito
alternativo, dal momento che l'art.  441,  comma  1,  del  codice  di
procedura penale - che,  nell'estendere  al  giudizio  abbreviato  le
norme  che  disciplinano  lo  svolgimento  dell'udienza  preliminare,
esclude esplicitamente l'applicazione degli articoli 422  e  423  del
codice di procedura penale - impedisce, in caso  di  rito  abbreviato
secco (53) le contestazioni suppletive. Se l'imputato  invece  optava
per il rito ordinario, ogni novita' incidente sull'imputazione emersa
in dibattimento, sebbene sottoponesse  a  tensione  i  suoi  diritti,
doveva considerarsi «un rischio a suo carico», addebitabile alla  sua
«inerzia» (nel non aver optato per il rito alternativo) (54)  .  Era,
in altre parole, un costo che avrebbe  dovuto  iscrivere  a  bilancio
allorche' avesse optato per il rito ordinario. 
    La  tesi  dell'assunzione  del  rischio,  come  noto,  e'   stata
ampiamente superata con riferimento alle contestazioni  suppletive  e
ritenuta inidonea ad offrire  una  soluzione  appagante  al  problema
delle   interferenze   tra   diritto   di    difesa    e    mutamento
dell'imputazione.  Come  noto,  la  Corte  costituzionale,  dapprima,
rilevo', con  riferimento  alle  contestazioni  patologiche,  che  la
condotta processuale «anomala»  del  pubblico  ministero  (il  quale,
cadendo in errore, non avesse contestato fatti che  gia'  risultavano
ex  actis)  avesse  sviato,  inquinato,  compromesso   la   capacita'
dell'imputato  di  scegliere   il   rito   adeguato   ed   ostacolato
l'assunzione libera del rischio  dibattimentale,  imponendo  in  tali
casi la rimessione in termini per la scelta del rito alternativo (55)
(Corte costituzionale n. 265 del 1994). E,  in  un  secondo  momento,
accantono' del tutto il criterio della distribuzione del rischio, con
il riconoscimento del diritto ai riti alternativi anche  in  caso  di
contestazioni fisiologiche, in cui nessun profilo di  addebitabilita'
era ascrivibile al  pubblico  ministero:  la  Corte  in  quella  sede
rinunciava definitivamente alla ricerca di un colpevole  su  cui  far
ricadere le  conseguenze  dall'evento  modificativo  e  semplicemente
affermava che, se la contestazione suppletiva e' un evento necessario
per  garantire  la  flessibilita'  del  rito  dibattimentale  (e   il
principio  di  non  dispersione  delle  prove),   cionondimeno   tale
eventualita' deve bilanciarsi con il diritto di difesa e il principio
di uguaglianza (Corte costituzionale n. 237 del 2012). 
    2.4. Il discorso impone  innanzitutto  una  precisazione  per  le
modifiche in iure. 
    Ritenere che la modifica della veste giuridica - della cui natura
traumatica per il diritto di difesa  in  relazione  ai  principi  del
giusto processo si e' gia' detto - debba considerarsi, per la difesa,
un rischio del dibattimento, e' una teoria  che  -  oltre  a  tradire
un'anacronistica  dimensione  punitiva  del  rito  ordinario  (56)  -
apparirebbe  fuorviante.  Come  noto,  la   mutatio   in   iure   non
rappresenta, infatti, un rischio proprio del dibattimento ma,  a  ben
vedere, un  rischio  proprio  del  processo,  dal  momento  che,  per
giurisprudenza costante, il giudice puo' operare la  riqualificazione
anche direttamente in sede di rito abbreviato, e non  necessariamente
all'esito  del  dibattimento  (cfr.  da  ultimo,  Cassazione  penale,
Sezione quarta, sentenza 18793/2019). 
    Quindi, a voler adoperare la tesi dell'assunzione del  rischio  -
gia' ampiamente superata con riferimento alla mutatio in facto  -  se
ne dovrebbe operare un correttivo e affermare  che  il  mutamento  in
iure e' un rischio che sempre e comunque deve ricadere sull'imputato,
a prescindere  dal  rito  prescelto  e  dal  quale  nessuna  condotta
diligente puo' porlo al riparo (57) . 
    Per giustificare questa rigida,  inderogabile  distribuzione  del
rischio in danno dell'imputato si potrebbe sostenere che  la  mutatio
in iure e' un rischio che deve andare a  suo  carico  perche'  e'  un
evento per natura prevedibile. A tal proposito,  corre  l'obbligo  di
rilevare che, nell'unica sentenza in cui la Corte  di  Cassazione  ha
affrontato in modo diretto il rapporto tra modifica in  iure  e  rito
abbreviato  (58)  ,  e'  proprio  questo  della  prevedibilita'  (59)
l'argomento adoperato per ritenere che la modifica  in  iure  imputet
sibi, precludendo il rito. 
    La tesi appare insostenibile per almeno due ordini di motivi. 
    In  primo  luogo,  una  siffatta  teoria  appare  confondere   la
fisiologia della riqualificazione con la prevedibilita'  in  concreto
di quella riqualificazione. Che  il  giudice  abbia  la  prerogativa,
posta a presidio del principio  di  legalita',  di  riqualificare  il
fatto in sentenza e'  un  evento  ineliminabile,  irrinunciabile  del
processo, perche', da un lato, ribadisce che il giudice  ha  l'ultima
parola in diritto, e dall'altro impedisce, che,  ove  si  imponga  la
necessita' di riqualificare, il processo debba ripartire dall'inizio,
vanificando il principio di non dispersione della prova. 
    In  questa  logica,  l'evento  riqualificazione  e'   sicuramente
fisiologico, poiche' e' il  processo  a  prevederlo  quale  possibile
epilogo decisionale. Ben diverso e'  ritenere  che  sia  prevedibile,
«nella confusa e  sterminata  boscaglia»  normativa,  identificare  i
possibili reati cui un medesimo fatto  sia  riconducibile.  Affermare
che la riqualificazione sia un evento prevedibile  in  concreto,  nel
risultato, nei suoi approdi e' una petizione di principio; e  non  si
comprende poi perche' la riqualificazione dovrebbe essere prevedibile
nei risultati per l'imputato, e non per il pubblico ministero  -  che
infatti, proprio non prevedendola, ha commesso un errore a monte -  e
ricadere quindi a carico del primo. Ritenere prevedibile il mutamento
di nomen nella direzione ipotizzata dal giudice - e in tutte le altre
possibili - pone la difesa in una sorta di paradosso:  il  difensore,
infatti, se argomentasse molto,  prevedendo  diligentemente  tutti  i
possibili  esiti  riqualificatori,  rischierebbe  di  suggerire  egli
stesso una via alla quale il giudice non aveva neppure  pensato,  con
qualche  forzatura  del  principio  nemo  tenetur  se  detegere;   se
mantenesse invece un profilo basso,  argomentando  nei  limiti  della
fattispecie contestata -  che,  per  definizione,  dovrebbero  essere
incompatibili con le altre  immaginabili  -,  lascerebbe  delle  zone
inesplorate che, se pur lo conducessero al  risultato  rispetto  alla
fattispecie  originaria,  lo  inchioderebbero  su  una  delle   altre
possibili, tra l'altro con  un'anomala  inversione  dell'onere  della
prova, poiche' finirebbe per essere condannato per non essersi difeso
su un'ipotesi non argomentata dall'accusa. 
    Francamente, si  fatica  a  comprendere  perche'  quella  che  e'
semplicemente un'evenienza processuale -  ossia  la  riqualificazione
del fatto ad opera del  giudice  -  debba  essere  guardata  come  un
rischio da scaricare su una delle parti, adoperando criteri elaborati
in temi di responsabilita'  civile,  e  non  possa  piuttosto  essere
studiato come uno scenario fisiologico, al manifestarsi del  quale  i
diritti delle parti vanno riorganizzati  e  ripristinati  secondo  le
direttive costituzionali (60) . 
    In secondo luogo, ove si voglia insistere nel  guardare  l'evento
modificativo in iure come un rischio da  distribuire,  non  puo'  non
rilevarsi che la mutatio in iure  altro  non  e'  che  la  correzione
operata dal giudice di un errore del  pubblico  ministero.  Partecipa
quindi,  in  tal  senso,  della  stessa  natura  della  contestazione
patologica:  e'  un  errore  di  selezione  della   veste   giuridica
addebitabile all'accusa, cui era  possibile  porre  rimedio  gia'  ex
actis,  attraverso  una  lettura  corretta  del  fatto   oggetto   di
imputazione (poiche', e' chiaro che, se il fatto  risultasse  diverso
da   quello   contestato,   neppure   si    potrebbe    operare    la
riqualificazione). Non si  comprende  quindi  perche'  un  errore  di
valutazione dell'Ufficio di Procura nella selezione del  nomen  iuris
debba risolversi  in  un  nocumento  delle  prerogative  proprie  del
diritto di difesa, sconfessando una conquista sul tema delle liberta'
processuali  che  si  e'  raggiunta  quasi  un  trentennio   fa   con
riferimento alla mutatio in facto (cfr. Corte costituzionale  n.  265
del 1994). 
    2.5.  Superati  gli  argomenti  contrari  al  riconoscimento  del
diritto  di  difesa  inteso  come  diritto  alla  scelta   del   rito
alternativo  in   ogni   caso   di   mutamento   dell'imputazione   -
conformemente come deve essere inteso un diritto di difesa  pieno  ex
art. 24 della Costituzione garantito  costantemente  nelle  dinamiche
modificative dell'imputazione ex art. 111 della  Costituzione  -  una
riflessione va infine dedicata alle  conseguenze  dirompenti  che  la
riqualificazione in peius ha sull'aspettativa di pena.  L'aspettativa
di pena e' un parametro alla cui variazione non puo' non  connettersi
la  possibilita'  di  rivedere  la  scelta  del  rito  e  seguire  la
premialita'. 
    Sul punto, di particolare aiuto appaiono le  riflessioni  che  la
Corte costituzionale ha offerto in tema di  contestazione  suppletiva
della circostanza aggravante e rimessione in termini  per  la  scelta
del rito alternativo, approdando ad una nuova pronuncia additiva  che
ha esteso anche a questa  ipotesi  il  diritto  di  accesso  al  rito
alternativo (61) . Con riferimento alle interazioni tra contestazione
suppletiva della circostanza aggravante e riti alternativi, la  Corte
osserva: «La motivazione della sentenza [la n.  265  del  1994]  puo'
ugualmente riferirsi al caso di contestazione "tardiva" di una o piu'
circostanze   aggravanti,   in   quanto   anche   la   trasformazione
dell'originaria   imputazione   in   un'ipotesi   circostanziata   (o
pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del  quadro
processuale.   Le   circostanze   in   questione   possono   incidere
sull'entita' della sanzione, anche  in  modo  rilevante,  laddove  il
legislatore contempla la previsione di pene di specie  diversa  o  di
pene della stessa specie, ma  con  limiti  edittali  indipendenti  da
quelli stabiliti per il reato base, o, talvolta, sullo stesso  regime
di procedibilita' del reato o, ancora, sull'applicabilita' di  alcune
sanzioni sostitutive» (62) . 
    La Corte appare in queste pronunce fare un passo  ulteriore:  nel
descrivere  il  modo  in  cui  il  mutamento   incida   concretamente
sull'imputazione, non considera piu' nodale  il  problema  del  thema
probandum, ma il problema del rischio  sanzionatorio  non  calcolato.
Implicitamente, la Corte  sembra  sganciare  l'esigenza  di  garanzia
difensiva dall'interesse della  difesa  alla  controprova  del  fatto
nuovo o  diverso:  la  Corte  non  si  interroga  se  sia  necessario
garantire alla difesa,  sul  fatto  diversamente  circostanziato,  la
possibilita' di  valutare  la  convenienza  del  rito  contratto  con
riferimento al profilo deflattivo, del contraddittorio probatorio. La
Corte non sembra prendere piu' in considerazione lo smacco  difensivo
attinente al thema probandum (ossia la necessita' che la difesa possa
riorganizzarsi sulla prova della diversa  porzione  di  fatto)  e  si
concentra, valorizzandolo, sul  secondo  parametro  condizionante  la
scelta del rito abbreviato, ossia lo sconto di  pena  (la  componente
puramente premiale). 
    A riprova di cio', si ponga mente al fatto che vi e' un caso - la
contestazione suppletiva  di  recidiva,  che  in  quanto  circostanza
aggravante   e'   partecipa   delle   conseguenze   delle    pronunce
costituzionali additive - in cui  l'imputato,  pur  non  godendo  del
diritto al termine a difesa ne'  del  contradditorio  probatorio,  ha
diritto alla premialita', senza deflazione. 
    Si  coglie  in  questi  passaggi  la   necessita'   di   tutelare
l'aspettativa  di  pena  dell'imputato  da  qualunque  sopravvenienza
sfavorevole, sia che essa dipenda da un mutamento in  fatto  sia  che
essa dipenda dalla riconduzione dell'immutato fatto  ad  una  diversa
fattispecie. All'imputato va garantito sempre il diritto di mutare la
sua scelta in direzione premiale, anche  solo  ed  esclusivamente  in
relazione all'aggravato rischio sanzionatorio, per garantire  che  il
suo pieno diritto di difesa (art. 24 della Costituzione)  sia  tenuto
in considerazione in ogni momento di variazione  dell'addebito  (art.
111 della Costituzione). 
3. Violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Molti sono,  per  altro  verso,  i  profili  che  evidenziano  la
contrarieta'  della  preclusione  all'accesso  al  rito   alternativo
rispetto  al  principio  di  uguaglianza  di  cui  all'art.  3  della
Costituzione. 
    3.1. Innanzitutto, l'imputato destinatario,  sin  dal  principio,
dell'imputazione  corretta  avra'   accesso   al   rito   abbreviato;
diversamente l'imputato - che abbia commesso il medesimo fatto  -  in
relazione al quale il pubblico ministero abbia commesso un errore  di
valutazione, perdera' del tutto la possibilita' di vagliare  il  rito
premiale rispetto al medesimo titolo di reato. 
    L'errore del pubblico ministero nella scelta della contestazione,
o comunque la correttezza  della  sua  impostazione,  non  appare  un
criterio ragionevole per trattare diversamente imputati che, commesso
il medesimo reato, si vedono invece dinanzi scenari  processuali  ben
diversi. L'imputato viene cosi'  irragionevolmente  discriminato,  ai
fini dell'accesso  ai  procedimenti  speciali,  in  dipendenza  dalla
esattezza della discrezionale valutazione in diritto delle risultanze
delle  indagini  operata  dal  pubblico   ministero   nell'esercitare
l'azione penale alla chiusura delle indagini stesse. 
    3.2.  In  secondo  luogo,  va  ricordato   che   il   potere   di
riqualificazione del  giudice  incontra  un  unico  limite  normativo
invalicabile: l'art. 521 del codice di  procedura  penale  stabilisce
che «nella sentenza il giudice puo' dare  al  fatto  una  definizione
giuridica diversa da quella enunciata  nell'imputazione,  purche'  il
reato non ecceda  la  sua  competenza  ne'  risulti  attribuito  alla
cognizione  del  tribunale  in   composizione   collegiale   anziche'
monocratica». Nel  caso  in  cui  il  reato  ritenuto  rientri  nella
competenza di un giudice  superiore,  ovvero  risulti  attribuito  al
tribunale in composizione collegiale, il  giudice  dovra'  restituire
gli atti al pubblico ministero e il processo dovra'  ricominciare  il
suo corso. 
    Da  cio'  emerge  un'irragionevole   fonte   di   disparita'   di
trattamento poiche'  l'imputato  potrebbe  vedersi  restituito  nella
facolta'  di  accedere  al  rito  per  circostanze  in  qualche  modo
«occasionali» (63) , non  prevedibili  ex  ante:  il  recupero  della
facolta' di accesso al rito alternativo  viene  infatti  a  dipendere
dalla circostanza che la riqualificazione approdi in  concreto  a  un
reato di competenza superiore o collegiale. Il  tendenziale  criterio
di maggiore gravita' del reato che presidia le ipotesi - che comunque
non sente di coprire tutte le ipotesi di riqualificazione in peius  -
siccome opera su un risultato non prevedibile ex ante non e' comunque
elemento idoneo a giustificare la disparita' di trattamento,  poiche'
non e' in rado di orientare le scelte in punto di  rito  che  vengono
compiute quando la riqualificazione e' ben di la' da venire. 
    3.3. Va infine osservato che, sebbene vi sia differenza sistemica
tra quaestio iuris e quaestio facti,  che  impone  di  attribuire  al
giudice il diritto di stabilire,  al  termine  del  procedimento,  la
veste corretta, tale differenza - come detto in precedenza - racconta
la dinamica dei rapporti tra  giudice  e  pubblico  ministero,  nulla
dicendo - o meglio nulla imponendo - in merito alla compressione  dei
diritti  della  difesa.  Essa  non  appare,  sul  piano   ontologico,
filosofico  e  scientifico,   idonea   a   giustificare   una   cosi'
macroscopica difformita' di trattamento. 
    Va allora considerato che non appare adeguatamente indicato quale
sia il parametro che consenta di trattare diversamente  imputati  che
subiscano, nel corso  del  procedimento,  modifiche  in  fatto  della
contestazione e modifiche in diritto. Non e' chiara  la  ragione  che
consenta di trattare diversamente, da un lato, l'imputato che,  anche
a fattispecie incriminatrice ferma, subisca la nuova contestazione di
una circostanza aggravante, quale e'  la  recidiva,  che  neppure  lo
rimette in termini per il contraddittorio probatorio, al quale  viene
attribuito  il  diritto,  in  limine  litis,  di  accedere  al   rito
abbreviato; e dall'altro, l'imputato che si veda, all'esito della sua
costruzione strategica del processo, minato nelle fondamenta,  e  con
una prospettiva sanzionatoria stravolta, pur godendo di un potenziale
spazio probatorio, al quale viene precluso il diritto di rivedere  le
sue scelte in tema di rito. 
    3.4. Resta in ultima analisi il dubbio di un ulteriore spazio  di
diseguaglianza. 
    Parte della dottrina ritiene che, sebbene sia vero che il giudice
ha l'ultima parola sul nomen iuris ed in questa scelta non ha  limiti
purche' il fatto sia invariato, cionondimeno non sembrerebbe precluso
al pubblico  ministero,  in  corso  di  procedimento,  un  potere  di
rivisitazione autonomo del nomen iuris.  E'  opinione  condivisa  che
tale modifica debba intendersi esercitata nell'ambito dei  poteri  di
mutamento  dell'imputazione  di  cui  all'art.  516  del  codice   di
procedura penale: sembrerebbe cosi' emergere uno  scenario  di  ampia
discriminazione, poiche', se fosse il pubblico ministero  a  rivedere
in iure l'imputazione, si entrerebbe nell'ambito  dell'art.  516  del
codice di procedura penale e l'imputato sarebbe  rimesso  in  termini
per la scelta del rito alternativo; se fosse il giudice ad operare la
medesima modifica, nell'esercizio del potere  di  cui  all'art.  521,
comma 1, del codice di procedura penale, cio' sarebbe precluso. 
    E' una regola che, se ritenuta  percorribile,  oltre  a  mostrare
debolezza in termini  di  idoneita'  a  giustificare  il  trattamento
diverso di imputati che si trovano nella medesima situazione,  appare
facilmente aggirabile nella prassi. 
4. Assenza di discrezionalita' legislativa sul tema  per  carenza  di
un'alternativa normativa compatibile con la Costituzione 
    Venendo alle battute conclusive,  non  puo'  essere  ignorata  in
questa sede la sentenza n. 103 del 2010  della  Corte  costituzionale
(64) , ove la Corte e' stata chiamata a pronunciarsi sul  tema  della
legittimita' del potere di riqualificazione d'ufficio del  giudice  e
dei suoi rapporti con le garanzie difensive. Da  piu'  parti,  si  e'
interpreta questa pronuncia come momento di arresto della riflessione
sulla tutela piena dei diritti di difesa in caso di  mutamento  della
qualificazione giuridica, poiche' la Corte, pur  non  affrontando  il
merito della questione proposta e  arrestandosi  all'inammissibilita'
per insufficiente motivazione in punto di rilevanza  della  questione
(65)  ,  operava  un  passaggio  ulteriore  (66)  in   cui   rilevava
l'appartenenza  della  tematica  al  terreno  della  discrezionalita'
legislativa. 
    Interrogata sulla possibilita' di  prevedere  con  una  pronuncia
additiva - strumentale  alla  tutela  del  diritto  di  difesa  e  al
principio di uguaglianza -  la  parificazione  della  disciplina  tra
quaestio iuris e quaestio facti, la Corte rilevava  che  le  garanzie
difensive potevano trovare tutela  attraverso  soluzioni  diverse  da
quella proposta, che tra l'altro mirava «ad ottenere la parificazione
di situazioni processuali tra loro non omogenee, quali l'accertamento
che un fatto debba essere diversamente qualificato e la constatazione
che il fatto e'  differente  da  quello  descritto  nel  decreto  che
dispone il giudizio». In  questa  pronuncia,  prendendo  le  distanze
dalle operazioni additive gia' operate in riferimento alla disciplina
della nuove contestazioni (vi erano gia' state la pronuncia del 19194
e quella del 2009), la  Corte  aggiungeva  anche  che  «la  decisione
richiesta, dunque, coinvolgendo scelte  relative  alla  conformazione
della disciplina  processuale,  rientra  nella  discrezionalita'  del
Parlamento». 
    Alla luce di questo monito, va esaminato con puntualita' se,  pur
dimostrata la necessita' costituzionale  di  garantire  l'accesso  al
rito abbreviato in  caso  di  mutamento  in  iure  officioso  operato
all'esito della decisione, vi siano tuttavia altre  strade  normative
costituzionalmente compatibili con questo  risultato,  diverse  dalla
rimessione  nei  termini  della  difesa  per  la  formulazione  della
richiesta. Se tali strade vi fossero, lo spazio per garantire  questo
test standard del diritto di difesa non rientrerebbe nelle competenze
operative del Giudice delle leggi e si collocherebbe sul  terreno  di
discrezionalita' legislativa, poiche' - secondo quanto ribadito nella
citata pronuncia del 2010 - spetterebbe al legislatore decidere quale
sia  l'opzione  meglio  rispondente   alla   complessiva   disciplina
codicistica. 
    4.1. Sul punto, potrebbe ritenersi che la strada alternativa  per
garantire l'accesso al rito abbreviato in caso di mutamento in  iure,
sia proprio quella  indicata  dal  giudice  a  quo  nel  procedimento
approdato alla sentenza n. 103 del 2010 Corte  costituzionale,  ossia
la parificazione tra quaestio iuris e quaestio facti: se  il  giudice
restituisse  gli  atti  al  pubblico  ministero,  in  ogni  caso   di
riqualificazione, l'imputato sarebbe posto, infatti, nella condizione
di valutare la scelta  di  accedere  al  rito.  Una  scelta  siffatta
avrebbe, peraltro, il pregio di abolire appunto (quella che da taluni
si ritiene essere) una scomoda e superabile distinzione. 
    Questa   strada   non   e'    solo    un'alternativa    normativa
sovradimensionata  rispetto  al  risultato  da  garantire,   peraltro
estranea  agli  stessi  principi   convenzionali   (67)   ,   ma   e'
costituzionalmente impraticabile. 
    4.2. Si e', infatti, correttamente osservato  che  precludere  al
giudice  il  potere   di   modificare   la   connotazione   giuridica
dell'imputazione, ove ritenga errata  quella  proposta  dalle  parti,
trovandosi costretto in tal caso a restituire gli  atti  al  pubblico
ministero, condurrebbe ad una violazione del principio  di  legalita'
sostanziale e del principio di soggezione del giudice alla legge. 
    Introdurre un potere  dispositivo  delle  parti  processuali  sul
nomen iuris depriverebbe il giudice dell'ermeneutica  giuridica,  che
e' l'unica liberta' intangibile di cui gode nel processo, in  cui  si
incarna la ragione del suo potere e che esprime anche una funzione di
presidio di tutte le parti,  poiche'  il  giudice  applica  le  norme
secondo criteri prestabiliti, ispirati se non ad una  scienza  esatta
ad una scienza  sociale;  ed  e'  soggetto  solo  a  tali  criteri  e
affrancato da poteri altri (68) . 
    Riconoscere questo spazio interpretativo intangibile del  giudice
non esclude, ma anzi rinforza, l'urgenza di fissare i confini  chiari
all'esercizio concreto di questa liberta' 
    In altre parole, la presa d'atto delle difficolta' ontologiche di
garantire l'esattezza e la razionalita' della  decisione  in  iure  e
delle difficolta' operative, riscontrate nella prassi legislativa, di
rendere il corpus normativo un apparato  intellegibile  e  razionale,
non  puo'  condurre  ad  abdicare  a  questo  prezioso  principio  di
legalita' sostanziale. Vale invece la pena  di  recuperare  le  acute
riflessioni di coloro i quali coglievano del processo  la  dimensione
corale, nella quale la fattispecie processuale si consegna alle  mani
del giudice dopo essersi dipanata a piu' voci; e di recuperare  anche
le riflessioni di coloro i  quali  suggeriscono  di  ritrovare  nella
disciplina del processo - ispirata all'art. 111 della Costituzione  -
quegli spazi  di  liberta'  sostanziale  inevitabilmente  perduti  in
ragione  di  quelle  difficolta'  antologiche   e   operative   sopra
evidenziate. 
    Da ultimo, si coglie nell'opzione di restituzione degli atti  una
logica completamente contraria al principio di economia processuale e
di non dispersione dei mezzi di prova, di  recente  recuperato  dalla
Corte costituzionale, proprio nella dimensione  del  processo  penale
(69) . 
    Non vi sono quindi alternative normative possibili  e  la  scelta
costituzionalmente obbligata appare essere quella della rimessione in
termini dell'imputato per la scelta del rito alternativo. 
    4.3. Del resto, l'obbligo costituzionalmente imposto di suscitare
il contraddittorio delle parti allorquando il giudice dissenta  dalla
costruzione dei fatti processualizzati presentata dalle parti, e'  in
sintonia con quella dimensione corale e a piu' voci del processo  che
deve essere recuperata. 
    Si  e'  gia'  osservato  che  l'interlocuzione  del  giudice  non
equivale ad una anticipazione di giudizio (70)  :  va,  anzi,  tenuto
presente che il giudice in tanto suscita il contraddittorio sul nomen
iuris, in quanto su quel tema non ha ancora esaurito il  suo  potere,
ne' il suo dubbio ermeneutico. 
    Il giudice  non  presenta  la  sua  decisione,  ma  uno  scenario
possibile che, per la prima  volta,  catalizza  le  attenzioni  delle
parti. Mantenendo la sua imparzialita', il giudice si pone ancora  in
una dimensione di ricerca  della  collaborazione  delle  parti  nella
costruzione dell'edificio  decisorio;  una  dimensione  collaborativa
dalla  quale  si  allontanera'  definitivamente  solo  in  camera  di
consiglio e solo all'esito dell'ulteriore  tassello  argomentativo  e
probatorio apposto dagli attori processuali. 
    Il giudice, con la proposta di riqualificazione, ipotizza che  il
reato contestato non vi sia, ma che vi siano spazi applicativi per un
reato diverso. 
    Superfluo appare precisare che gli scenari possibili, nel momento
dell'interlocuzione, sono ancora  plurimi,  e  possibilmente  diversi
dalla proposta illustrata dal giudice. In sede di  interlocuzione  il
difensore: 
        1)  potrebbe  decidere  di  argomentare  in  punto  di  norma
giuridica applicabile, sostenendo che  il  giudice  correttamente  ha
proposto  di  escludere  la  norma  originariamente  contestata,   ma
cadrebbe in errore nel ritenere che vi siano spazi interpretativi per
il nomen proposto, sia alla luce della normativa applicabile sia alla
luce di quanto gia' emerso in dibattimento; 
        e/o in subordine 
        2a) potrebbe optare per una resa in  punto  di  nomen  iuris,
convenendo che gli spazi applicativi per il nuovo reato vi siano,  ma
contrastare questi spazi in punto  di  fatto,  nel  merito,  portando
prova di fatti con essi incompatibili. 
        2b) in questa seconda ipotesi, la difesa, nondimeno  potrebbe
- rectius, dovrebbe avere il diritto di - ritenere conveniente optare
per la rinuncia alla possibilita' di portare  prove  nuove  di  fatti
incompatibili (perche' ad esempio non ve ne siano) ed, anzi, decidere
di cedere in punto di arricchimento della piattaforma probatoria  del
giudice, offrendogli per la sua decisione anche gli atti raccolti dal
pubblico ministero che sino a quel momento non aveva acconsentito  ad
acquisite, poiche' senza contraddittorio, in modalita' meno garantita
(71) . 
    Se in camera di consiglio il giudice, alla luce  delle  eventuali
argomentazioni  delle  parti  espresse  in  sede  interlocuzione,  si
determinera'  a  ricondurre  il  fatto   oggetto   di   contestazione
nell'alveo della diversa fattispecie,  e  se  tale  fatto  risultera'
provato, alla  luce  della  valutazione  congiunta  delle  risultanze
istruttorie formate  nel  contraddittorio  delle  parti  con  i  meno
garantiti atti di indagine,  il  giudice  condannera'  per  il  reato
riqualificato, applicando lo sconto di pena del terzo secco (72) . 
    4.4. Chiaramente, il riconoscimento di questo  modello  operativo
presupporrebbe che all'imputato, nel medesimo giudizio in  cui  viene
per la prima volta operata la  riqualificazione,  sia  riservato  uno
spazio interlocutorio  poiche'  e'  in  questo  spazio  che  dovrebbe
trovare posto la sua richiesta di accesso al rito abbreviato. 
    D'altra parte, riservare questo spazio ad un momento  antecedente
alla   riqualificazione   risponde    gia'    a    un'interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 521 del  codice  di  procedura
penale. In questo senso, si e' gia' detto in precedenza, che - almeno
ad avviso di chi scrive - la questione di costituzionalita' dell'art.
521 del codice di procedura  penale  con  i  parametri  di  cui  agli
articoli 111, 24, 3  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  non
prevede che  il  giudice  che  intenda  operare  la  riqualificazione
susciti un contraddittorio argomentativo  e  probatorio,  apparirebbe
infondata  poiche'  e'   praticabile   un'interpretazione   conforme.
Cionondimeno, la questione meriterebbe uno scrutinio - oltre che  per
leggere sul punto voci ben piu' autorevoli di chi scrive - anche solo
per suscitare una sentenza  interpretativa  di  rigetto  della  Corte
costituzionale  che,  indicando  la  corretta   interpretazione,   a)
uniformi la disciplina; b) chiarisca se -  come  si  ritiene  -  tale
interlocuzione     debba     necessariamente     essere     stimolata
obbligatoriamente gia' nel giudizio di prime cure; e c)  entro  quali
spazi sia consentito il contraddittorio probatorio. 
    Non e' questa la sede per porre in via diretta un simile quesito,
poiche', essendosi  riconosciuto  questo  spazio  interlocutorio,  la
questione  non  si  e'  neppure  potuta  sollevare  per  difetto   di
rilevanza.  Tuttavia,   se   le   riflessioni   illustrate   appaiano
convincenti, il modulo operativo in cui inserire la richiesta di rito
abbreviato in caso di modifica in iure sembrerebbe essere il giudizio
in cui la riqualificazione  viene  operata  per  la  prima  volta  -,
poiche' la richiesta del rito e'  presupposto  logico  -  e  verrebbe
prima - della decisione di condanna per la fattispecie riqualificata. 
    Nell'ipotesi  in  cui  si  accogliesse  la  visione  prospettata,
sarebbe auspicabile modificare l'art. 521  del  codice  di  procedura
penale nel  senso  che  lo  stesso  imponga  di  offrire  uno  spazio
interlocutorio, collocato in  un  momento  che  sia  determinato  con
precisione, entro cui poter esercitare tutti i diritti difensivi, sia
quelli che sia  gia'  possibile  riconoscere  con  un'interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 521 del  codice  di  procedura
penale - contraddittorio argomentativo  e  probatorio  -  sia  quelli
oggetto di eventuale pronuncia additiva - accesso al rito abbreviato. 

(1) Misura sostituita, dapprima in data 23  marzo  2020,  con  quella
    degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico nel Comune
    di       ; e poi, in data 9 giugno 2020, con le misure  congiunte
    del divieto  di  dimora  e  dell'obbligo  di  presentazione  alla
    polizia giudiziaria. 

(2) Ma anche all'esito della lettura degli atti di indagine, in  caso
    di riqualificazione operata ex officio in sede di rito abbreviato 

(3) Si deve precisare che il  momento  in  cui  si  e'  sollevata  la
    questione di costituzionalita' non e' in sede di  contraddittorio
    delle parti sulla possibilita' di operare la  riqualificazione  -
    poiche' si e' ritenuto che in quella sede  la  questione  non  si
    ponesse come  rilevante  essendo  la  riqualificazione  una  mera
    possibilita' ancora di la' da venire - ma in sede  di  camera  di
    consiglio, quando tale riqualificazione e' diventata un  segmento
    della decisione. Cionondimeno - come si illustrera' nei paragrafi
    che seguono cio' che impedisce di pervenire alla decisione  piena
    e ha costretto a sospendere il  giudizio  e'  il  dubbio  che  il
    ragionamento decisorio - e quindi anche il suo  risultato  -  non
    sia corretto, poiche' lo stesso avrebbe  dovuto  essere  condotto
    tenendo conto della  richiesta  difensiva  di  definizione  nelle
    forme del rito abbreviato: da un lato, integrando la  piattaforma
    probatoria anche  con  la  lettura  degli  atti  di  indagine,  e
    dall'altro, nel caso in cui anche dagli atti di indagine si trovi
    conferma   del   perimetro   fattuale   provato   e    dell'esito
    riqualificatorio, pervenendo ad una  condanna  con  la  riduzione
    secca di un terzo. 

(4) La difesa ha poi prodotto un cd contenente  i  messaggi  WhazzApp
    oggetto di scambio tra vittima e imputato nel  corso  della  loro
    relazione, che danno modo di delineare la tipologia di  relazione
    e il livello di frequentazione tra le parti in costanza di reato. 

(5) Va ricordato che, nella pronuncia n. 103  del  2010  della  Corte
    costituzionale la  Corte  dichiaro'  inammissibile  la  questione
    rilevando che il giudice a quo si era limitato a  confrontare  le
    fattispecie, originaria e riqualificata, solo  ed  esclusivamente
    su un piano  di  fattispecie  astratte,  senza  giustificare  nel
    merito perche' ravvisasse un identico fatto. In  essa  si  legge:
    «l'esercizio di tale potere non puo'  [...]  prescindere  da  una
    verifica volta ad accertare in concreto,  cioe'  con  riferimento
    alla fattispecie in esame, se il  fatto  sia  diverso  da  quello
    descritto nell'imputazione» (Corte costituzionale, 10 marzo 2010,
    n. 103 del 2010, in Giur. Cost. 2010, 1159). 

(6) Entrambe le donne hanno dichiarato che  L       parlava  in  modo
    entusiastico della C      e si diceva certo di  aver  trovato  la
    donna giusta. La S      ha addirittura raccontato di aver stretto
    un rapporto materno con la C        , con  la  quale  si  sentiva
    telefonicamente ogni mattina ed aveva assoluta intimita'. 

(7) La donna ha ricordato un episodio in particolare: mentre erano di
    rientro da un centro commerciale, ove aveva accompagnato il L    
     a fare compere ma costui non era  riuscito  a  trovare  capi  di
    abbigliamento di suo gradimento, l'imputato,  in  un  accesso  di
    rabbia, la accuso' di avergli fornito consigli errati sul  centro
    commerciale a lui adatto e la scaravento' a terra,  trascinandola
    per i capelli fino all'autovettura e facendole sbattere  il  viso
    contro la portiera. Una volta entrati in autovettura, durante  il
    tragitto verso un  altro  centro  commerciale,  il  L      invei'
    contro di lei e,  improvvisamente,  estrasse  dalla  portiera  un
    giravite con la cui punta le  graffio'  ripetutamente  la  gamba,
    costringendola a fare rientro in  casa  per  cambiarsi  pantalone
    macchiato di sangue. La C      ,  in  dibattimento,  ha  indicato
    precisamente, tra quelli allegati alla  denuncia,  il  fotogramma
    ritraente  la  cicatrice  riconducibile  all'aggressione  con  il
    giravite, che era ancora visibile al momento della  denuncia  del
    26 novembre  2019.  Ha  poi  ricordato  che  frequenti  erano  le
    discussioni con il L      in ordine al  suo  orario  di  ritirata
    nelle sere in cui si incontravano:  addirittura,  quando  i  suoi
    figli  (due  dei  quali  minori)  che  l'attendevano  a  casa  le
    telefonavano per chiederle quando rientrasse, l'imputato  reagiva
    spegnendole o  addirittura  distruggendole  il  telefono.  Questa
    reazione di violenza sul telefono divenne  assai  frequente  -  e
    legata anche ad altre occasioni di litigio - al punto  che  ella,
    avendo subito in un solo  mese  la  rottura  di  ben  tre  schede
    telefoniche a lei intestate e non potendone attivare una quarta a
    suo  nome,  fu  costretta  ad  adottare  una  scheda   telefonica
    intestata al L     . 

(8) A  tal  proposito,  la  C       ha  ricordato  un   episodio   in
    particolare: mentre era in autovettura con il L      ricevette un
    messaggio vocale da una sua amica la quale le comunicava di  aver
    incontrato il suo ex compagno, il quale le portava  i  saluti  ed
    esprimeva il desiderio di rincontrarla.  Mentre  era  intenta  ad
    ascoltare il messaggio audio, il L     le strappo' il telefono di
    mano e, quando lo ebbe ascoltato, reagi' dapprima  distruggendole
    il telefono e poi picchiandola con calci e  schiaffi,  nonostante
    lei continuasse a ripetergli che quel messaggio  non  significava
    nulla e che non aveva alcuna intenzione di incontrare il  suo  ex
    compagno. Questo specifico episodio in  cui L       distrusse  il
    telefono e' noto alla madre e alla sorella di L      che lo hanno
    raccontato nel corso delle rispettive deposizioni, in cui si sono
    peraltro mostrate al  corrente  della  gelosia  di  L       (cfr.
    deposizioni di S     A     e L      R      ) 

(9) La signora L      R     , sorella dell'imputato, ha precisato che
    il rapporto tra i due era connotato da  un  marcato  e  reciproco
    sentimento di gelosia che, nel caso del fratello, era  verosimile
    derivasse dal senso di insicurezza dovuto  al  tradimento  subito
    dalla ex moglie. Addirittura, il  L       si  impressionava  ogni
    volta che la C      non rispondeva  al  telefono  e  le  chiedeva
    continuamente dove si trovasse e con chi fosse. 

(10) Il ragazzo ha raccontato di aver notato,  durante  la  relazione
     tra la madre e il L      (persona che, a settembre 2019,  le  fu
     presentata  dalla  madre  come  suo   compagno),   un   profondo
     cambiamento nella madre, che appariva preoccupata  e  stressata.
     Ipotizzo' che questo cambiamento fosse causato  dalla  relazione
     con il L      , poiche' la madre era turbata, piangeva e gridava
     ogni volta che riceveva telefonate  da  costui.  Talvolta  -  il
     ragazzo ha ricordato nitidamente almeno due  occasioni  -  aveva
     notato graffi ed ecchimosi anche sul  suo  volto,  ma  la  madre
     aveva risposto in modo evasivo, accampando scuse. D'altra parte,
     confrontandosi con altri parenti, si era reso conto che la madre
     era ormai evasiva non solo con  lui,  ma  con  tutti  e  si  era
     allontanata dai suoi affetti. 

(11) La donna ha raccontato di aver iniziato la serata litigando  con
     l'imputato, ma nonostante il litigio, si reco'  con  lui  in  un
     hotel  a        -  ove  erano  soliti  intrattenersi  -  e   ivi
     consumarono un rapporto sessuale consenziente. Poi, dal  momento
     che il suo telefono cellulare era stato sequestrato e spento dal
     L      (e che il telefona della C      non  fosse  raggiungibile
     lo  ha  confermato  il  figlio  C       nel  corso   della   sua
     deposizione, il quale provo' invano a telefonarle fino alle 2,00
     del mattino), approfittando dell'uscita  di  quest'ultimo  dalla
     stanza,  prese  il  secondo  telefono  regalatogli  dalla  madre
     dell'imputato, che  aveva  scrupolosamente  nascosto  nella  sua
     borsa  all'insaputa  del  L      e  lo  accese  per  inviare  un
     messaggio. Al suo rientro in stanza, il L       senti' il  suono
     del cellulare e comincio' a frugare nella  borsa,  rovesciandone
     il contenuto  sul  pavimento  e  strappando  tutti  i  documenti
     riposti al suo interno. Trovato il telefono, il L     lo accese,
     facendosi dare il pin per l'accensione  da  lei  e  vi  ritrovo'
     alcuni messaggi, ivi compresi quelli vocali che la C      si era
     scambiata con la madre del L      .  A  questa  scoperta,  L    
      adirato con lei che - nel timore  che  glielo  rompesse  -  gli
     aveva  nascosto  l'esistenza  di  un  secondo  telefono,  reagi'
     insultandola - «sei una zoccola, una puttana» - e minacciando di
     rinchiuderla in un posto lontano e non farle piu' vedere  figli.
     Tali aggressioni verbali, intervallate da violenze  fisiche,  si
     protrassero  dalle  ore  23,00  alle  ore  3,00/4,00  circa  del
     mattino, momento in  cui  l'imputato,  dolente  ad  un  braccio,
     crollo'  esausto  sul  letto  e   si   addormento'.   Anch'ella,
     impaurita, tamponato il  viso  gonfio  con  un  asciugamano,  si
     addormento'  e,  alle  ore  6,00  del   mattino,   riaccompagno'
     l'imputato a casa e rientro' nel suo appartamento. 

(12) Basti qui  solo  dire  che  la  manifesta  contraddizione  delle
     dichiarazioni suddette con il fascicolo  fotografico  e  con  le
     altre - molto piu' - convincenti  fonti  rappresentative,  oltre
     che il contegno processuale della madre di L     e le  spontanee
     dichiarazioni  dello  stesso  imputato,  conducono  a   ritenere
     inattendibili  entrambe  le  deposizioni  almeno  per  la  parte
     riferita  alla  percezione  delle  aggressioni  fisiche,   fermo
     restando che, quandanche le due  donne  non  avessero  assistito
     personalmente  a  violenze  o  fossero  state  destinatarie   di
     confidenze in tal senso, non sarebbe questo  elemento  idoneo  a
     sconfessare il narrato credibile  e  riscontrato  della  persona
     offesa. 

(13) In  «The  Oxford  English  Dictionary»  la  definizione  e'  «To
     approach slow, and quietly in order not to  be  discovered  when
     getting closer towards an animal or a person, in order to  kill,
     catch or harm it or them». E in riferimento al termine nella sua
     connotazione criminale «to illegaly follow  and  watch  somebody
     over a long period of  time,  in  a  way  that  is  annoying  or
     frightening». Nel dossier redatto dal Servizio Studi del Senato,
     febbraio 2009, n. 98, a commento dei disegni di legge AA.SS. nn.
     451, 751, 795, 861 e 1348 in materia di stalking, si  legge  «Il
     termine "stalking" (e il  verbo  "to  stalk")  e'  derivato  dal
     linguaggio tecnico della caccia ed e'  traducibile  lateralmente
     con la perifrasi "fare  la  posta"  (alla  preda)».  Sembrerebbe
     lampante in questa sola definizione che per aversi stalking c'e'
     un reo che, in senso lato, insegue e una vittima che sfugge. 

(14) D'altra parte,  dalla  lettura  delle  discussioni  parlamentari
     prodromiche all'approvazione del testo normativo, si' evince  un
     clima di confusione in merito alla ratio di  esclusione  di  una
     siffatta  aggravante,   e   talora   e'   introdotto   il   tema
     dell'antologica estraneita' del reato di atti  persecutori  alle
     ipotesi di rapporto affettivo in corso. 

(15) Le condotte intrusive in tanto possono definirsi tali, in quanto
     vi sia uno spazio individuale che la persona offesa protegge  ed
     in cui la presenza del reo e' espressamente rifiutata. 

(16) Relazione di accompagnamento al disegno di legge n. 1440 

(17) Giudica - correttamente - superflua la clausola di  salvaguardia
     attenta dottrina, rilevando che, per la le regole generali. 

(18) In particolare a seguito della recente legge del 19 luglio 2019,
     n. 69 «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale
     e altre disposizioni in  materia  di  tutela  delle  vittime  di
     violenza domestica e di genere», applicabile ratione temperis al
     caso di specie. 

(19) Molestie  che,  ancora  una  volta,  evocano  un   concetto   di
     «disturbo» della vittima, che sembrerebbe  male  attagliarsi  ad
     una relazione affettiva in corso. 

(20) L'evento psichico, connesso alla natura di  reato  di  durata  e
     quindi  sviluppato  nel  tempo  e'  prima  di  tutto   psichico:
     maltrattato non e' il leso, il minacciato, il molestato,  ma  e'
     colui che consente, tollera, subisce la reiterazione  nel  tempo
     delle condotte d'abuso.  E'  stato  efficacemente  descritto  in
     dottrina, come uno stato  di  «sofferenza  di  natura  fisica  e
     morale  si  ripercuota   sulla   personalita'   della   vittima,
     impedendone  la  normale  espansione,  soffocandola,   o   anche
     soltanto  rendendole  ingiustamente  piu'  difficile  la  libera
     formazione  ed  esplicazione,  frustrandola,   deformandola   in
     direzioni diverse da quelle che senza i  maltrattamenti  avrebbe
     potuto assumere, comprimendola in uno  stato  di  terrore  e  di
     abiezione  indegno  di  un  essere  umano»,  Maltrattamenti   in
     famiglia o verso fanciulli [XXV, 1975] di Coppi Franco, voce  in
     Enciclopedia del diritto. 

(21) Le parole «o comunque  convivente»  sono  state  aggiunte  dalla
     legge  n.  172  del  2012  -  Ratifica   ed   esecuzione   della
     Convocazione del Consiglio d'Europa per la protezione dei minori
     contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, fatta a Lanzarote  il
     25 ottobre 2007, nonche' norme di  adeguamento  dell'ordinamento
     interno. 

(22) D'altra parte, il riferimento dell'art. 572  del  codice  penale
     anche alle relazioni fondate sull'autorita'  e  sull'affidamento
     inducono a soffermarsi sul dato comune della natura  particolare
     del rapporto considerato, in cui vi e' una componente di fiducia
     - o di soggezione - che la vittima ripone nell'autore. Si tratta
     di rapporti che, proprio  per  la  componente  di  fiducia  -  o
     soggezione - possono favorire le manifestazioni di prepotenza di
     un soggetto sull'altro e indebolire nella vittima  la  capacita'
     di sottrarsi alle vessazioni. Centrale in tutti  e  tre  i  casi
     appare la tutela della  personalita'  di  singoli  individui  in
     ragione della loro particolare posizione psicologico-affettivo -
     o   formalmente   subordinata   -   rispetto   all'autore    dei
     maltrattamenti. 

(23) Da ultimo, Cassazione penale, Sezione seconda, 23 gennaio  2019,
     (ud. 23 gennaio 2019, dep. 8 marzo  2019),  n.  10222).  Contra,
     Cassazione penale, Sezione sesta, 9 novembre 2018, n. 55737). 

(24) Al riguardo si consideri la giurisprudenza che  ha  riconosciuto
     la realizzazione del reato in esame nelle  ipotesi  di  mobbing,
     secondo cui «Le pratiche persecutorie realizzate  ai  danni  del
     lavoratore  dipendente  e  finalizzate  alla  sua  emarginazione
     (cosiddetto  "mobbing")  possono   integrare   il   delitto   di
     maltrattamenti in famiglia esclusivamente  qualora  il  rapporto
     tra  il  datore  di  lavoro  e  il  dipendente   assuma   natura
     para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed
     abituali,  da  consuetudini  di  vita  tra  i  soggetti,   dalla
     soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla  fiducia
     riposta dal soggetto piu' debole  del  rapporto  in  quello  che
     ricopre la posizione  di  supremazia»,  v.  da  ultimo,  Sezione
     sesta, Sentenza n. 39920 del 2018, non massimata; Sezione sesta,
     n. 24642 del 19 marzo 2014 - dep. 11 giugno 2014, Pg in proc. L.
     G. Rv. 26006301. 

(25) Come noto, secondo la giurisprudenza di legittimita', se vi sono
     molestie o minacce reciproche non e' configurabile il delitto di
     maltrattamenti in famiglia (v. Cassazione penale, Sezione sesta,
     n. 4935 del 23 gennaio 2019 -  dep.  31  gennaio  2019,  M.  Rv.
     27461701 secondo cui «In tema  di  maltrattamenti  in  famiglia,
     integra gli estremi  del  reato  la  condotta  di  chi  infligge
     abitualmente  vessazioni  e  sofferenze,  fisiche  o  morali,  a
     un'altra persona, che ne rimane succube, imponendole  un  regime
     di vita persecutoria e umiliante, che  non  ricorre  qualora  le
     violenze, le offese e le umiliazioni siano  reciproche,  con  un
     grado di gravita' e intensita' equivalenti»). 

(26) Entrambe le donne hanno dichiarato che L       parlava  in  modo
     entusiastico della C       e si diceva certo di aver trovato  la
     donna giusta che potesse affiancarlo, una donna con cui, dopo la
     fine del rapporto con la ex compagna, aveva ritrovato  stabiliti
     nella sua vita, trovando addirittura un impiego. La  S        ha
     addirittura raccontato di aver stretta un rapporto  materno  con
     la C       con la quale si sentiva telefonicamente ogni mattina.
     La C       si confidava molto con lei e  le  racconto'  del  suo
     stato depressivo, in relazione al quale la stessa S       a  sue
     spese la condusse da uno specialista. 

(27) Altrove, come noto, si e' sostenuto che per  aversi  medesimezza
     del fatto le due fattispecie dovrebbero essere poste a  presidio
     dello stesso bene giuridico. 

(28) Non solo in dottrina, ma anche  in  giurisprudenza,  proprio  in
     occasione di un dubbio di legittimita' costituzionale  simile  -
     sebbene diversamente prospettato nell'epilogo -: «l'esercizio di
     tale potere non puo' [...] prescindere da una verifica volta  ad
     accertare in concreto, cioe' con riferimento alla fattispecie in
     esame,  se  il   fatto   sia   diverso   da   quello   descritto
     nell'imputazione».(Corte costituzionale, 10 marzo 2010,  n.  103
     del 2010, in Giur. Cost. 2010, 1159). 

(29) Come peraltro impone  l'art.  178,  lettera  c)  del  codice  di
     procedura penale,  che  sanziona  con  la  nullita'  una  prassi
     accusatoria di tal sorta. 

(30) Nel menzionare gli eventi psichici di paura, stress, timore, che
     attengono alla  dimensione  soggettiva/interiore,  l'accusa  non
     puo'  che   limitarsi   a   parafrasare   il   contenuto   della
     disposizione, spostandosi il nucleo dei diritti difensivi  dalla
     descrizione del fatto alla prova del fatto, parimenti  a  quanto
     accade per il dolo. 

(31) Prassi per la quale il  giudice  inserirebbe  nella  fattispecie
     riqualificata un elemento fattuale non contestato, ma su cui  la
     difesa ha esercitato il diritto al contraddittorio. 

(32) Accertamento che rientra nel potere dispositivo  delle  parti  e
     sul quale il giudice  non  ha  il  medesimo  dominio;  per  cui,
     laddove accerti che  il  fatto  accertato  e'  diverso  o  nuovo
     rispetto a quello contestato, dovra'  ai  sensi  dell'art.  521,
     comma 2, del codice di  procedura  penale  restituire  gli  atti
     all'Ufficio di Procura. 

(33) Anche a causa delle tecniche utilizzate dal legislatore  per  la
     redazione  della  fattispecie,  quali  la  tecnica  casistica  o
     l'abuso di clausole generali, ma si  pensi  anche  al  frequente
     utilizzo di elementi valutativi, di fattispecie aperte. 

(34) Nei lavori preparatori del progetto di codice di procedura,  era
     stata proposta per  le  modifiche  in  iure  l'adozione  di  una
     disciplina analoga a quella prevista per  la  contestazione  del
     fatto diverso, oppure «la previsione di un dovere del giudice di
     rendere nota  preventivamente  la  decisione  di  modificare  la
     qualificazione giuridica, consentendo la discussione sul punto».
     Il legislatore, pero', ritenne di non  adottare  ne'  l'una  ne'
     l'altra soluzione, in quanto entrambe  avrebbero  comportato  un
     «dispendio di attivita' probabilmente eccessivo e il rischio, in
     pratica, di indurre il giudice a conformarsi  in  ogni  caso  al
     nomen iuris contestato». 

(35) Sentenza Corte europea dei diritti dell'uomo, 11 dicembre  2007,
     Drassich contro Italia. 

(36) La giurisprudenza della Corte europea ha rafforzato nel tempo lo
     spessore del diritto di difesa, mutando il parametro di giudizio
     circa  la  violazione  del  diritto  di  difesa   in   caso   di
     riqualificazione giuridica dell'accusa. Nella sentenza 25  marzo
     1999, Pelissier e Sassi, dopo aver constatato che la mutatio  in
     iure non era stata comunicata ai ricorrenti, per stabilire se ci
     fosse violazione, aveva  anche  valutato  se  le  argomentazioni
     impiegate dalla  difesa  avrebbero  potuto  essere  in  concreto
     diverse a fronte della possibilita' di un mutamento  del  titolo
     del reato, e, ritenendolo probabile, aveva accolto  il  ricorso.
     Successivamente, invece (dapprima nella sentenza 20 aprile 2006,
     I. H. contro Austria e, nella stessa sentenza 11 dicembre  2007,
     Drassich contro Italia) ha ritenuto di prescindere da  una  tale
     verifica,  valorizzando  il  principio  secondo  il  quale  ogni
     diversita' relativa alla qualificazione giuridica attribuita  al
     fatto, ove  non  sia  stata  oggetto  di  contraddittorio,  lede
     comunque l'art. 63, lettera a), della Convenzione europea per la
     salvaguardia   dei   diritti   dell'uomo   e   delle    liberta'
     fondamentali. 

(37) Tribunale di Brindisi, ord. 20 ottobre 2017,  proc.  n.  1607/15
     R.G.N.R., Giud. Biondi, imp. Moro. 

(38) Corte giust. UE, sentenza 13 giugno 2019, causa C-646/17, Moro. 

(39) Come noto, la direttiva 2012/13/UE,  utilizzata  come  parametro
     dal Tribunale brindisino, e il diritto convenzionale operano  in
     stretta sinergia: la Convenzione europea per la salvaguardia dei
     diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  agisce  sulla
     direttiva a livello normativo,  integrando  il  contenuto  delle
     garanzie procedurali previste  dall'atto  europeo;  le  pronunce
     della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  agiscono   sulla
     direttiva a  livello  interpretativo,  poiche',  delimitando  il
     significato e la  portata  del  testo  convenzionale,  integrano
     indirettamente significato e portata  delle  disposizioni  della
     direttiva. 

(40) L'informazione sulla possibile  riqualificazione  giuridica  del
     fatto  non  mette  in  dubbio  l'imparzialita'  del  giudice   e
     l'utilita' del contraddittorio (cfr. Cassazione penale,  Sezione
     terza, Sentenza n. 6211  dell'11  novembre  2014  Cc.  (dep.  11
     febbraio 2015) Rv. 264820 - 01). 

(41) Non si vuole  qui  ignorare  che  la  nostra  giurisprudenza  di
     legittimita',    nell'interpretazione     del     diritto     al
     contraddittorio sulla riqualificazione in iure, abbia  nondimeno
     teso  ad  assestarsi  sugli  standard   minimi   fissati   dalla
     Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e
     delle liberta' fondamentali, nella misura in cui ha ritenuto che
     il diritto di difesa,  secondo  i  parametri  della  Convenzione
     europea per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
     liberta'  fondamentali,  sia  garantito  (i)  anche  quando   il
     contraddittorio sia consentito nel grado di giudizio successivo,
     e quindi per la riqualificazione operata in prime cure, in  sede
     di appello (cfr.  Cassazione  11  aprile  2014,  Salsi,  in  CED
     Cassazione, m. 259564; Cassazione 7 novembre 2012, Manara, in CP
     2014, 1019; Cassazione 24 settembre 2012, Jovanovic, in CEDCass,
     m. 254649; Cassazione 14 febbraio 2012, Vinci, ivi, m.  251961);
     e per la riqualificazione operata in appello, innanzi alla Corte
     di Cassazione (cfr. Cassazione 4 marzo 2015, Bu, in CEDCass,  m.
     262778; Cassazione  11  aprile  2014,  Salsi,  ivi,  m.  259564;
     Cassazione 15 maggio 2015, Drassich, ivi, m. 256652;  Cassazione
     7 maggio 2013, Maiuri, ivi, m. 255735;  Cassazione  13  novembre
     2012, Tirenna,  ivi,  m.  254357;  Cassazione  25  maggio  2012,
     Saviolo, ivi, m. 254055; Cassazione 9 maggio 2012, D.D.,  in  CP
     2013, 1975); e (ii) anche quando la  riqualificazione  giuridica
     sia stata resa nota  attraverso  qualunque  atto,  ivi  compreso
     quello cautelare (cfr. Cassazione penale 18  febbraio  2010,  di
     Gati).  Secondo  queste  interpretazioni  restrittive,   animate
     evidentemente dagli stessi  timori  del  legislatore  del  1988,
     sarebbe necessario stimolare il contraddittorio -  argomentativo
     - solo nel giudizio di legittimita' e non e' chiaro come sia poi
     garantito il diritto al contraddittorio probatorio  in  sede  di
     giudizio di rinvio. Non si dubita che cio'  possa  corrispondere
     ai principi convenzionali (cfr. in tal senso, C. eur.,  1  marzo
     2001, Dallos contro Ungheria, § 52; C. eur., 21  febbraio  2002,
     Sipavicius contro Lituania, §§ 32-33; C. eur.,  6  giugno  2002,
     Feldman contro Francia; C. eur., 20 aprile 2006,  I.H.  e  altri
     contro Austria, § 36; C.  eur.  9  marzo  2013,  Zhupnik  contro
     Ucraina, § 43); tuttavia va ribadito che tali  principi  fissano
     standard minimi, dai quali e' possibile  discostarsi  prevedendo
     tutele  piu'  piene  ove   cio'   sia   imposto   dai   principi
     costituzionali di uno Stato  Membro:  sicuramente  garantire  il
     contraddittorio sin dalle prime cure, senza  privare  l'imputato
     di un grado di giudizio, dargli la  possibilita'  di  difendersi
     nella  fase  processuale   piu'   adeguata   per   le   garanzie
     istruttorie,  e'  una  regola  improntata  all'art.   24   della
     Costituzione nella dimensione processuale fissata dall'art. 111.
     Si  direbbe,  in  definitiva,  che,  su  questo  profilo  -  non
     rilevante nel caso di specie -, sia auspicabile un sindacato  di
     legittimita'  costituzionale  dell'art.  521   del   codice   di
     procedura penale  in  relazione agli  articoli 24  e  111  della
     Costituzione, nonostante la possibilita'  di  un'interpretazione
     conforme - quale infatti si e' operata nel caso di  specie  -  e
     quindi un verosimile rigetto per infondatezza, anche al sol fine
     di ottenere una sentenza interpretativa di rigetto  con  cui  il
     Giudice delle leggi indichi, una volta e per  tutte,  quale  sia
     l'unica interpretazione conforme alla  Costituzione  e  fissi  a
     chiare lettere a quale livello il contraddittorio,  in  caso  di
     riqualificazione, debba essere assicurato -  secondo  un  metodo
     fatto proprio dalla Corte proprio nella recente sentenza n.  131
     del  2019,  in  cui   si   sono   delineati   i   rapporti   tra
     riqualificazione giuridica e probation. 

(42) Con riferimento a tale pronuncia sembra potersi osservare che, a
     dispetto dell'esito di infondatezza,  la  Corte  costituzionale,
     nell'indicare una strada interpretativa conforme a Costituzione,
     abbia ritenuto implicitamente che l'accesso ai riti  alternativi
     fosse  un'alternativa  che  -  sebbene  gia'  possibile  in  via
     interpretativa - intanto e' da garantire in  quanto  rispondente
     ai parametri costituzionali indicati dal giudice a quo.) 

(43) Come indicato nella  nota  precedente,  ove  il  contraddittorio
     fosse instaurato - come si ritiene corretto  -  gia'  dal  primo
     grado ove qui operi la riqualificazione, non si comprende se sui
     nuovi temi emersi si instauri un contraddittorio limitato  negli
     angusti dell'art.  507  del  codice  di  procedura  penale,  con
     l'esercizio di un potere peraltro gia' previsto in quella  fase,
     ovvero pieno ex art. 187 del  codice  di  procedura  penale  nei
     limiti ordinari di pertinenza e rilevanza. 

(44) Sembrerebbe essere questa invece la strada seguita dal Tribunale
     brindisino per sollecitare la pronuncia della Corte di giustizia
     sull'art. 521 del codice di procedura penale  sopra  menzionata,
     ma anche la strada seguita dal giudice a quo nella  sentenza  n.
     103 del 2010 della Corte costituzionale. 

(45) Come osservato dalla Corte di Giustizia nel caso  sollevato  dal
     Tribunale di Brindisi, il diritto di difesa di fronte all'evento
     di  mutamento,  nel  diritto  convenzionale  e  comunitario,  si
     esplica solo come diritto all'informazione e al contraddittorio.
     Sebbene non si ignori che la Corte europea dei diritti dell'uomo
     potrebbe  approdare  a  conclusioni   diverse   e   maggiormente
     garantiste,  disattendendo  l'interpretazione  della  Corte   di
     Giustizia, e' innegabile  che  il  diritto  convenzionale  fissi
     standard minimi ed e' parere di chi scrive - se  sia  consentito
     esprimerlo - che, allo stato, l'unica dimensione del diritto  di
     difesa riconosciuta in quella sede sia questa. 

(46) Parte non trascurabile della dottrina, come  noto,  contesta  in
     radice, non solo il pregio della  distinzione,  ma  finanche  la
     possibilita'  logica  di  distinguere  i  piani.  Ora  -   senza
     addentrarsi in tematiche che  trovano  altrove  riflessioni  ben
     piu' strutturate - vale la pena di rimarcare  che  il  principio
     che stabilisce il dominio del giudice sulla quaestio  (tenendola
     implicitamente distinta dalla quaestio facti)  oltre  ad  essere
     largamente  condiviso  nella  giurisprudenza  della  Convenzione
     europea per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
     liberta' fondamentali, rappresenta fra l'altro un corollario del
     principio di legalita', e trova attuazione, oltre che  nell'art.
     521 del codice di procedura penale, anche art. 530 del codice di
     procedura penale nella selezione delle  formule  assolutorie,  e
     nell'art. 5 del codice penale. 

(47) La stessa Corte di Cassazione,  pure  nell'oscillante  e  talora
     insoddisfacente rielaborazione dei  principi  della  Convenzione
     europea per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
     liberta'  fondamentali,  ha  mostrato  sensibilita'  su   queste
     implicazioni. Nella sentenza 23 giugno 2017, n. 49054, si  legge
     «che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 521  del
     codice di procedura penale impone di ritenere che il  potere  di
     attribuire alla condotta addebitata  all'imputato  una  nuova  e
     diversa qualificazione giuridica non possa essere esercitato  "a
     sorpresa" ma solo a condizione che vi sia stata  una  preventiva
     promozione, ad opera del giudice,  del  contraddittorio  fra  le
     parti sulla "questio iuris" relativa; e cio' anche nel  caso  in
     cui la nuova e diversa qualificazione  risulti  piu'  favorevole
     per il giudicabile, atteso che la difesa ben  puo'  diversamente
     atteggiarsi (quanto alle opzioni strategiche) e  modularsi  (sul
     piano  tattico)  in  rapporto  alla  differente   qualificazione
     giuridica della condotta, rispetto alla quale, oltre  tutto,  le
     emergenze processuali assumono, a loro volta, diversa rilevanza,
     dovendo la garanzia del contraddittorio in ordine alle questioni
     inerenti alla diversa qualificazione giuridica del fatto  essere
     concretamente assicurata all'imputato sin dalla fase  di  merito
     in cui si verifica la modifica dell'imputazione». 

(48) L'argomento e' stato, sinteticamente, utilizzato nella  sentenza
     della Corte di Cassazione n. 5546/92 Sezione quinta, Sentenza n.
     5546 del 5 marzo 1992 Ud. (dep. 12 maggio 1992) Rv. 190092 - 01,
     per   negare   l'accesso   al   patteggiamento   in   caso    di
     riqualificazione. Nella sentenza si legge: «In caso  di  accordo
     delle parti sulla pena ai sensi dell'art. 444 del  Nuovo  Codice
     di procedura penale il controllo  relativo  alla  qualificazione
     giuridica  del  reato  ed  alla  inesistenza  di  cause  di  non
     punibilita' ex art. 129 stesso codice deve essere effettuato dal
     giudice ex ufficio, allo stato degli atti, e non  a  seguito  di
     una fase dibattimentale comprendente la discussione da parte dei
     difensori e del P.M. di una tesi principale al cui  accoglimento
     venga  subordinata   la   richiesta   di   patteggiamento.   Una
     trattazione, infatti, della causa implicante esposizione di tesi
     e decisione sulle stesse darebbe luogo  ad  un  vero  e  proprio
     giudizio   dibattimentale    incompatibile    col    rito    del
     patteggiamento. (Nella  specie  questa  Corte  ha  rigettato  il
     ricorso dell'imputato che lamentava  la  mancata  ammissione  da
     parte  del  Tribunale  della  discussione  sulla  qualificazione
     giuridica  dei  fatti,  pur  avendo  le  parti  chiesto  in  via
     principale la derubricazione del reato di falso in atto pubblico
     in   falso   in   certificazione   e   solo,   subordinatamente,
     l'applicazione della pena patteggiata).» 

(49) Le  nuove  contestazioni  sono  definite  dalla   stessa   Corte
     costituzionale un meccanismo  anomalo  (o  comunque  derogatorio
     rispetto alle  ordinarie  cadenze  procedimentali)  che  diventa
     patologico allorquando si consente di inserire nel  dibattimento
     fatti che, sebbene risultassero gia' dalla lettura  degli  atti,
     non erano stati inseriti in imputazione per errore o malizia,  o
     inesattezza nelle  scelte  del  pubblico  ministero.  Nonostante
     l'anomalia o la patologia, il meccanismo era ritenuto necessario
     per garantire flessibilita' al dibattimento ed evitare che,  per
     ogni fatto diverso o nuovo - per il fatto nuovo,  entro  i  noti
     limiti normativi - , il processo dovesse riprendere da  capo  il
     suo corso (cfr. Corte costituzionale 237 del 2012). 

(50) Corte costituzionale 3 giugno 1992, n. 241 e 20  febbraio  1995,
     n. 50. 

(51) In Corte costituzionale n. 273 del 2014, si osserva  «Come  gia'
     in precedenza rilevato, d'altra parte, se pure e'  indubbia,  in
     una prospettiva puramente "economica", che piu' si posticipa  il
     termine utile per la rinuncia al dibattimento e meno il  sistema
     ne "guadagna", resta comunque assorbente la  considerazione  che
     l'esigenza della "corrispettivita'"  fra  riduzione  di  pena  e
     deflazione processuale non  puo'  prendere  il  sopravvento  sul
     principio di  eguaglianza  ne'  tantomeno  sul  diritto  difesa,
     dichiarato  inviolabile  dall'art.  24,  secondo  comma,   della
     Costituzione».  In  passato  si   era   affermato   invece   che
     «L'interesse dell'imputato ai riti alternativi trova tutela solo
     in quanto la sua condotta consenta l'effettiva adozione  di  una
     sequenza procedimentale che, evitando il dibattimento,  permetta
     di  raggiungere  l'obiettivo  di  una  rapida  definizione   del
     processo» (sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992  e  n.  593
     del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992). 

(52) Si vuole comunque ribadire che,  se  questo  piccolo  spazio  di
     corrispettivita'  era  di  fatto   salvaguardato   anche   nelle
     contestazioni suppletive di cui agli  articoli  516  e  517  del
     codice  di  procedura  penale,  la  Corte  costituzionale,   nel
     riconoscere l'accesso ai  riti  alternativi  anche  in  caso  di
     contestazione  suppletiva  di  una  circostanza  aggravante,  ha
     definitivamente abbandonato il  binomio  premialita'/deflazione.
     E' infatti diritto dell'imputato accedere  al  rito  alternativo
     finanche in caso di contestazione suppletiva  della  recidiva  -
     poiche'  essa  e'  una  circostanza  -  sebbene,  in  tal  caso,
     l'imputato non goda del diritto  al  termine  a  difesa  ne'  al
     contradditorio   probatorio:   la    premialita'    non    trova
     corrispettivo in alcuna deflazione. 

(53) Diversa la disciplina del giudizio abbreviato a prova integrata,
     su cui di recente Cassazione, Sezioni unite,  20  febbraio  2020
     (ud.  18  aprile  2019),  n.  5788,  Pres.  Carcano,   Rel.   De
     Crescienzo. 

(54) «Se, per l'inerzia dell'imputato (che abbia omesso  di  chiedere
     il rito alternativo  nei  termini  con  riguardo  all'originaria
     imputazione), tale scopo [la deflazione, n.d.r.] non  puo'  piu'
     essere raggiunto - essendosi ormai pervenuti al  dibattimento  -
     sarebbe irrazionale che si addivenga egualmente al rito speciale
     in  base  alle  contingenti  valutazioni  dell'imputato   stesso
     nell'andamento del processo» (sentenze n. 129 del 1993,  n.  316
     del 1992 e n. 593 del 1990; ordinanze n.107 del 1993  e  n.  213
     del 1992). 

(55) Si puo' dire che, quasi come se la  scelta  del  rito  ordinario
     fosse in se' una  condotta  processuale  colposa,  l'errore  del
     pubblico  ministero  introduceva  un  elemento.  in   grado   di
     escludere la  prevedibilita'  della  colpa  dell'imputato  nella
     scelta del rito  ordinario  e  pertanto  l'evento  non  appariva
     all'imputato ascrivibile. 

(56) Non a caso questa teoria fu utilizzata per negare il diritto  al
     rito   alternativo   in   caso   di   contestazione   suppletive
     all'indomani dell'entrata in  vigore  del  codice  di  procedura
     penale. Emerge in questo approccio tutta la difficolta' con  cui
     il  legislatore  aveva  accettato  contraddittorio  orale  quale
     normale metodo di formazione della prova e la sua  resistenza  a
     rinunciare al  modello  inquisitorio.  Era  quindi  nella  forma
     mentis dell'epoca  -  oggi  ampiamente  superata  -  ostacolarne
     l'accesso appesantendolo di rischi,  calcolabili  e  non,  e  al
     contempo offrire detenenti alla scelta dei riti alternativi. 

(57) Sembra questa la ratio che  ha  ispirato,  per  la  verita',  la
     sentenza della  Cassazione  penale  n.  5493/1997  nel  ritenere
     manifestamente infondata la questione di legittimita'  dell'art.
     446 in relazione agli articoli 3 e 24 della  Costituzione  nella
     parte in cui non prevede la facolta' dell'imputato  di  accedere
     al rito di cui all'art. 444 del codice di procedura  penale  nei
     casi di condanna per reato diverso. 

(58) Sezione quinta, Sentenza n. 13597 del 12 marzo 2019 ud. (dep. 12
     aprile 2010) Rv. 246719 - 01 in cui la Corte afferma «La diversa
     qualificazione giuridica del fatto all'esito del processo  o  il
     proscioglimento  da  taluna  o  da  tutte  le  imputazioni   non
     costituiscono  la  dimostrazione   che   l'imputato   e'   stato
     sottoposto ad un processo ingiusto ma esattamente il  contrario,
     e cioe' che la istruttoria dibattimentale e  il  contraddittorio
     delle parti  hanno  parlato,  proprio  per  la  esistenza  e  il
     rispetto di regole processuali, alla acquisizione di una verita'
     che non ha permesso di confermare in toto la ipotesi di  accusa,
     istituzionalmente  spettante,  quanto  alla  individuazione  del
     fatto penalmente rilevante, al rappresentante  dell'Ufficio  del
     Pubblico minestra e quanto  alla  qualificazione  giuridica,  al
     verdetto finale del giudice. La  emersione  in  termini  per  la
     scelta di riti alternativi,  d'altra  parte,  e'  evenienza  non
     estranea  all'ordinamento  vigente  ma  con   riferimento   alla
     contestazione di fatti miopi (art. 516 del codice  di  procedura
     penale) e  non  anche  alla  diversa  qualificazione  giuridica.
     Quest'ultima, a differenza della contestazione suppletiva che e'
     evento processuale eccezionale  e  non  prevedibile,  e'  invece
     espressione della discrezionalita' tecnica del giudice il  quale
     e'  sempre  tenuto  a  ricondurre  la  fattispecie   nell'esatto
     perimetro normativo, nel rispetto della contestazione dei fatti.
     La parte, pertanto, ha il dovere di esercitare tutte le  proprie
     opzioni nella previsione che tale eventualita' di verifichi.» 

(59) L'argomento della prevedibilita' era  stato  speso,  come  noto,
     anche per negare il diritto al rito alternativo in caso di nuova
     contestazione:  si  sosteneva  che,   siccome   l'emersione   in
     dibattimento di  un  evento  gia'  risultante  dagli  atti,  era
     un'eventualita'  che  l'imputato  ben   poteva   prevedere,   la
     concretizzazione  di  quel  rischio  -  ossia  la  contestazione
     patologica - dovesse risultare  a  suo  carico,  inibendogli  la
     scelta di un rito diverso. Nella sentenza n.  316  del  1992  si
     leggeva infatti: «L'esclusione di tale possibilita' [di  accesso
     al rito alternativo, n.d.r.] e', giustificata dal rilievo che la
     contestazione e' evenienza, per un verso, non infrequente in  un
     sistema processuale imperniato sulla formazione della  prova  in
     dibattimento  (cfr.  ordinanza  n.  213   del   1992),   e   ben
     prevedibile,  dato  lo  stretto   rapporto   intercorrente   tra
     l'imputazione originaria e  il  reato  connesso»  ed  anche  «il
     relativo rischio rientra naturalmente nel  calcolo  in  base  al
     quale l'imputato si determina a chiedere o meno tale rito,  onde
     egli non ha che da addebitare a se medesimo le conseguenze della
     propria scelta». L'argomento fu ben presto  superato,  gia'  nel
     1994 n. 265 - tanto che le  prime  contestazioni  rispetto  alle
     quali  fu  ammesso  il  rito  alternativo  furono   proprio   le
     contestazioni   patologiche    -    innanzitutto    nella    sua
     verificabilita',   ritenendo    opinabile    qualificare    come
     prevedibili le modifiche dell'imputazione - sia fisiologiche che
     patologiche -; e poi ritenendo che  il  criterio  in  se'  fosse
     comunque inidoneo a giustificare la compressione di  diritti  di
     difesa (lo osserva la Corte costituzionale n. 237 del 2012). 

(60) Il  ragionamento  e'   parallelo   a   quello   che   la   Corte
     costituzionale nella sentenza n.  237  del  2012  segue  per  le
     modifiche in fatto:  se  le  contestazioni  suppletive  sono  un
     ineliminabile meccanismo per consentire la  flessibilita'  e  il
     funzionamento del dibattimento, cio' non puo' risolversi in  una
     compromissione  delle  garanzie  difensive;  per  cui,  in  tale
     evenienza,  in  chiave  di  bilanciamento,  va  riconosciuta  al
     diritto di difesa la sua massima espansione, anche nel formulare
     richiesta di riti alternativi. 

(61) Le pronunce n. 184 del 2014 con riferimento  al  patteggiamento,
     la n. 139 del 2015 con riferimento al giudizio abbreviato  e  la
     n.  141  del  2018  con   riferimento   alla   sospensione   del
     procedimento con messa alla prova. 

(62) Sentenza n. 184 del 2014. 

(63) Negli stessi termini si esprimeva la Corte  con  riferimento  al
     simile parametro che disciplinava le  contestazioni  suppletive,
     in relazione alle quali il divieto  operativo  di  contestazione
     per il caso in cui il reato rientrasse tra quelli  per  i  quali
     era prevista l'udienza preliminare,  consentendo  indirettamente
     l'accesso  ai  riti  alternativi,  introduceva  una   disparita'
     irragionevole, fondata su  un  parametro  casuale  (cfr.,  Cost.
     237/2012: «L'mpossibilita' di definire con  giudizio  abbreviato
     gli addebiti oggetto delle  nuove  contestazioni  "fisiologiche"
     risulta,  peraltro,  irragionevole  e  fonte  di  ingiustificate
     disparita' di trattamento anche sotto un altro profilo:  vale  a
     dire, in ragione del  fatto  che,  in  taluni  casi,  l'imputato
     potrebbe recuperare detta  facolta'  per  circostanze  puramente
     "occasionali",    che    determinino    la    regressione    del
     procedimento»). 

(64) Ove si e dichiarata inammissibile la questione  di  legittimita'
     costituzionale degli articoli 424,  429  e  521,  comma  1,  del
     codice di  procedura  penale,  sollevata,  in  riferimento  agli
     articoli 3, 24, 111, terzo comma,  e  117,  primo  comma,  della
     Costituzione «nella parte in cui consentono al GUP  di  disporre
     il rinvio a giudizio dell'imputato  in  relazione  ad  un  fatto
     qualificato, di  ufficio,  giuridicamente  in  maniera  diversa,
     senza  consentire  il   previo   ed   effettivo   sviluppo   del
     contraddittorio sul punto, chiedendo  al  PM  di  modificare  la
     qualificazione  giuridica  del  fatto  e,  in  caso  di  inerzia
     dell'organo dell'accusa, disponendo la trasmissione  degli  atti
     al medesimo P.M.» 

(65) «(...) dal momento  che  il  giudice  a  quo  ha  trascurato  di
     precisare perche', nella fattispecie sottoposta al suo giudizio,
     il fatto debba  ritenersi  diversamente  qualificato  e  non  si
     tratti,  piuttosto  di  un  fatto  diverso  rispetto  a   quello
     originariamente contestato» 

(66) Per la sua preziosita', si ritiene di riportare integralmente il
     passaggio: «il rimettente sollecita una pronunzia additiva,  non
     avente carattere di soluzione costituzionalmente  obbligata,  ma
     rientrante nell'ambito  di  scelte  discrezionali  riservate  al
     legislatore. Tale profilo, del resto, e' desumibile dalla stessa
     ordinanza di rimessione, nella parte in cui  si  sofferma  sulle
     diverse possibili procedure adottabili dal giudice  dell'udienza
     preliminare, al fine di  far  cadere  i  dubbi  di  legittimita'
     costituzionale della disciplina censurata. Invero, da  un  lato,
     il  rimettente  prospetta   la   possibilita'   di   pronunziare
     un'apposita ordinanza attraverso cui informare  le  parti  della
     diversa qualificazione giuridica attribuita al fatto,  cosi'  da
     consentire un contraddittorio anche sulla  nuova  qualificazione
     giuridica; dall'altro, prospetta l'applicazione in via analogica
     dell'art. 521, comma 2, del codice di procedura penale. Entrambe
     le  soluzioni,  poi,  sono  ritenute  inadeguate  dalla   citata
     ordinanza, che prospetta  come  indispensabile  l'intervento  di
     questa Corte mediante una  pronunzia  additiva  che  preveda  la
     regressione  del  procedimento   nella   fase   delle   indagini
     preliminari, attraverso la restituzione  degli  atti  all'organo
     dell'accusa.  Risulta  evidente,  quindi,   che   la   pronunzia
     richiesta postula una soluzione che non  e'  l'unica  possibile.
     Deve, altresi',  rilevarsi  che  la  soluzione  prospettata  dal
     giudice a quo tende ad ottenere la parificazione  di  situazioni
     processuali tra loro non omogenee, quali l'accertamento  che  un
     fatto debba essere diversamente qualificalo e  la  constatazione
     che il fatto e' differente da quello descritto nel  decreto  che
     dispone   il   giudizio.   La   decisione   richiesta,   dunque,
     coinvolgendo scelte relative alla conformazione della disciplina
     processuale, rientra nella discrezionalita' del  Parlamento.  Al
     riguardo, si deve  osservare  che  il  legislatore  si  e'  gia'
     espresso sul punto, in sede di relazione al progetto preliminare
     del codice di procedura penale del 1988; in tale occasione,  con
     riferimento al tema della non obbligatorieta' della correlazione
     tra la decisione sul tema giuridico dell'accusa e le conclusioni
     del pubblico ministero", era stata proposta  l'adozione  di  una
     disciplina analoga a quella prevista per  la  contestazione  del
     fatto diverso, oppure "la previsione di un dovere del gradire di
     rendere nota  preventivamente  la  decisione  di  modificare  la
     qualificazione giuridica, consentendo la discussione sul punto".
     Il legislatore, pero', ha ritenuto di non  adottare  ne'  l'una,
     ne' l'altra soluzione, in quanto entrambe  avrebbero  comportato
     un dispendio di attivita' probabilmente eccessivo e il  rischio,
     in pratica, di indurre il giudice a conformarsi in ogni caso  al
     nomen iuris contestato». 

(67) Non si e' pone in discussione, nei  principi  della  Convenzione
     europea per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
     liberta'   fondamentali,   il   dominio   del   giudice    sulla
     qualificazione giuridica, ma si impone  esclusivamente,  in  tal
     caso, un rinforzamento delle garanzie difensive. 

(68) Anche attraverso un esercizio congruo del potere legislativo per
     esempio nella redazione delle fattispecie incriminatrici. 

(69) Corte costituzionale n. 132 del 2019. 

(70) Fra le altre, Cassazione penale, Sezione terza, Sentenza n. 6211
     del 11 novemebre 2014 Cc. (dep. 11 febbraio 2015 ) Rv. 264820  -
     01, per cui «In tema di ricusazione,  non  costituisce  indebita
     anticipazione di giudizio  il  provvedimento  con  il  quale  il
     giudice inviti, in qualsiasi fase del procedimento, le parti  ad
     interloquire   sulla   qualificazione   giuridica   del   fatto,
     trattandosi di una prerogativa rientrante  nell'esercizio  delle
     sue funzioni e non di una manifestazione  indebita  del  proprio
     convincimento  sui  fatti  oggetta  di  imputazione,  posto  che
     siffatta interlocuzione e' imposta dall'art. 4, paragrafi 1 e 3,
     lettere a) e b) della Convenzione europea  per  la  salvaguardia
     dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (Fattispecie
     in cui, all'esito delle  conclusioni  delle  parti,  il  giudice
     aveva pronunciato ordinanza invitando le stesse ad  interloquire
     sulla   configurabilita'   di   una   diversa   e   piu'   grave
     qualificazione giuridica del fatto contestato).» 

(71) La difesa potrebbe operare una scelta  simile,  o  valutando  in
     un'ottica strategica la sola componente premiale dello sconto di
     pena, oppure anche - sebbene questa rappresenti un'ipotesi  piu'
     remota - immaginando che l'accesso  del  giudice  agli  atti  di
     indagine possa inquinare il suo giudizio, ad esempio in punto di
     attendibilita' delle fonti dichiarative. L'ipotesi e'  per  vero
     affatto remota, poiche', quando la scelta  per  l'abbreviato  si
     inserisca in una  fase  non  fisiologica,  a  dibattimento  gia'
     svolto, in limine litis, la  sua  funzione  strategica  -  cioe'
     finalizzata   comunque   all'approdo   assolutorio   -    appare
     depotenziata, come si  e'  gia'  sperimentato  d'altronde  nella
     prassi, in  caso  di  rito  abbreviato  in  limine  litis  sulla
     contestazione mutata in facto (cfr. Sezione quinta, Sentenza  n.
     21133 del 25 marzo 2019 Ud. (dep. 15 maggio 2019) Rv.  275315  -
     01) -. In queste ipotesi, difficilmente l'abbreviato  in  limine
     litis  sara'  autenticamente  utilizzato  quale  strategia   per
     smentite i fatti descritti nell'imputazione, perche'  la  difesa
     aveva a disposizione quegli atti sin dal principio e, se  avesse
     voluto, ben prima avrebbe potuto farli acquisire  ex  art.  493,
     comma 3, del codice di procedura  penale.  Peraltro,  se  avesse
     voluto smentire la fonte dichiarativa  avrebbe  potuto  sia  far
     transitare  gli   atti   di   indagine,   sia   illuminarne   le
     contraddizioni  del  narrato  in  controesame,   attraverso   la
     formulazione delle contestazioni. Ad ogni modo, vale la pena  di
     considerare questa ipotesi  sul  campo  come  ipotesi  che  puo'
     concretamente condurre ad un  approdo  assolutorio,  perche'  e'
     importante  ricordare  che  l'abbreviato,  neppure   in   queste
     ipotesi, e' una resa incondizionata: la richiesta, formulata  in
     sede di interlocuzione, non e' avanzata in un momento in cui  il
     giudizio decisorio in punto di riqualificazione sia  stato  gia'
     concluso, come puro pretesto per l'applicazione dello sconto  di
     pena; ne', soprattutto, si innesta su una decisione  gia'  presa
     in anticipo, perche' la decisione stessa trovera' sede in camera
     di consiglio e dovra' comunque relazionarsi anche col  materiale
     di indagine per verificare la sua fondatezza. Se  il  fatto  non
     trovera' conferma negli atti di indagine, perche' ad esempio, le
     fonti  dichiarative  ne   usciranno   travolte   o   emergeranno
     risultanze  in  grado  di  smentirlo,  si  versera'  in  ipotesi
     assolutoria.  E'  peraltro  questa  riflessione  che  conduce  a
     ritenere nel caso di specie niente affatto esaurito  -  ed  anzi
     interrotto -  il  giudizio,  ne'  presa  la  decisione,  perche'
     l'eventuale  decisione   nelle   forme   del   rito   abbreviato
     comporterebbe un ulteriore vaglio, allo stato non operato. 

(72) E' opinione di chi scrive che, conformemente a quanto accade per
     l'abbreviato in  caso  di  contestazioni  suppletive,  che,  pur
     comportando  l'acquisizione  dell'intero  fascicolo  in   ottica
     deflattiva,  resta  comunque  -  nei  suoi  effetti  premiali  -
     limitato al  nuovo  fatto-reato,  si  potrebbe  ipotizzare  che,
     allorche' il giudice, dall'analisi  congiunta  delle  risultanze
     istruttorie e degli atti di indagine, evinca elementi  in  grado
     di giustificare  la  scelta  del  titolo  operata  dal  pubblico
     ministero, escludendo quello scenario riqualificatorio che aveva
     prospettato, condanni senza applicare lo  sconto  di  pena,  per
     evitare di riconoscere effetti premiali ultronei. D'altra parte,
     la scelta del rito abbreviato da parte della  difesa,  richiesta
     solo  al  momento  dello  scenario  riqualificatorio,   dovrebbe
     coerentemente essere strumentale non solo ad un mero  sconto  di
     pena, ma anche ad evitare uno  scenario  siffatto;  quindi,  nel
     caso in cui il giudice, proprio alla luce  della  lettura  degli
     atti  di   indagine,   escluda   la   correttezza   dell'opzione
     riqualificatoria,  la  finalita'   difensiva   dell'acquisizione
     avrebbe  gia'  raggiunto  l'alto  obiettivo  di  scongiurare  il
     rischio prospettato; a quel  punto,  riconoscere  lo  sconto  di
     pena, sulla base di una prospettazione non  realizzata,  sarebbe
     un ingiustificato ed irrazionale effetto premiale.